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RECENSIONE FILM ACROSS THE UNIVERSE

ACROSS THE UNIVERSECRITICA a cura di Olga di Comite: Grosso dilemma al momento di decidere se vedere o no questo film: da una parte la presenza in esso di circa trenta canzoni dei Beatles, potente richiamo per la mia generazione e sicuro mezzo per malinconici abbandoni, dall’altra il genere musical a me poco congeniale, se non indigeribile.

Ha vinto la ricerca di emozioni e sono stata lieta che sia stato così perché l’opera nel suo insieme si è rivelata vivace, prorompente, ricca di linguaggi diversi mescolati tra loro, come sempre più spesso accade alle arti in questi tempi di transizione. La regista, donna di teatro, con due puntate significative nel cinema (Titus, Frida), ha evitato il rischio di fare una specie di elenco di canzoni, magari supportate da banali videoclip e ha scelto invece di presentare una storia con molti elementi di realtà, cui la musica fa da commento o da nucleo strutturale.

Avvalendosi di buone coreografie (Daniel Ezralow), ottimi adattamenti in musica (Elliot Goldenthal), nonché di una inventiva quasi mai scontata (solo le sequenze psichedeliche sembrano già ripetutamente viste), ha centrato il bersaglio dando vita a uno spettacolo originale e godibile. Solo nell’avvio la costruzione fa un po’ fatica, ma il resto scorre, diverte emozionando e ricorda momenti storici importanti nella vita dell’America anni ’60: la guerra nel Vietnam, l’assassinio di Martin Luther King, le rivolte nei ghetti negri a Detroit, le azioni dei pacifisti, l’esistenza di un mondo a metà tra impegno e bohéme.

Tutti questi temi trovano negli interpreti un riscontro efficace e convincente e nessuna voce del coro sembra stonata. E poi i pezzi musicali indimenticabili, cantati non dai Beatles ma dal vivo, proprio a sottolineare che il discorso centrale non è la biografia di un gruppo ma la sintesi di un’epoca di cui i Beatles sono stati fra gli altri testimoni ed attori. In questo rutilare di colori, in questo circo in cui c’è un po’ di tutto, dalla pop art a Fellini, dal kitch al teatro dei surrealisti, dalle marionette artigianali alla vita vera, emerge soprattutto l’energia dei giovani di allora.

A latere anche gli interventi di due cantanti di mestiere e di successo: Joe Coker nelle vesti di un anziano hippy con una rauca versione di Come Together e Bono degli U2, un guru colorito e irriverente che canta una versione personale di I’m the Walrus. Da tutto ciò nasce non un minestrone confuso ma un insieme abbastanza organico e attendibile nel restituire un momento creativo e dinamico di quel paese d’oltreoceano, oggi più grigio, meno amato e meno propositivo.

La storia. Due giovani, Jude (Jim Sturgess) e Lucy (Evan Rachel Wood) partono dalla natia Inghilterra e per strade diverse si ritrovano a New York. Lui è povero con sogni artistici, lei è benestante ed è rimasta sola poiché il suo primo ragazzo è morto in Vietnam, mentre Jude cerca in America il padre che non ha mai conosciuto e che vive lì. A fare da tramite al loro reincontro, c’è Max (Joe Anderson), fratello della ragazza. Attorno a loro un variegato gruppo di artisti, pseudo tali, giovani impegnati nella protesta politica. Ben presto i due s’innamorano rischiando poi di essere separati proprio da quell’ambiente che all’inizio era sembrato stimolante e tutto da vivere per entrambi.

Un lieto fine con concerto sui tetti di un quartiere della città e una polizia più benevola, chiude il racconto sempre in bilico tra realtà e sorprendenti fantasie. Olga di Comite
VOTO:

 

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