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RECENSIONE FILM ALLA LUCE DEL SOLE

ALLA LUCE DEL SOLEANNO: Italia 2004

GENERE: Drammatico

REGIA: Roberto Faenza

CAST: Luca Zingaretti, Alessia Goria, Corrado Fortuna, Giovanna Bozzolo, Francesco Foti, Piero Nicosia, Lollo Franco, Mario Giunta, Pierlorenzo Randazzo, Gabriele Castagna, Salvo Scelta.

DURATA: 92 '

TRAMA: << Imputato, dica alla Corte perché l'avete fatto >> - << Quel prete prendeva i ragazzi dalla strada, ci martellava con la sua parola, ci rompeva le scatole >>. Era un uomo solo, disarmato. Per fermarlo lo chiamarono padre, perché era un sacerdote. L'assassino, 28 anni, 13 omicidi alle spalle, teneva in pugno una pistola col silenziatore. Un altro, mentendo, disse: << E' una rapina >>. L'uomo disse solo tre parole: << Me lo aspettavo >>. Sorrise, come faceva sempre con tutti. E fu l'ultimo dei suoi sorrisi. Don Giuseppe Puglisi, chiamato nel 1990 dal vescovo di Palermo a occuparsi della parrocchia di un quartiere alle porte della città, Brancaccio, in meno di due anni riesce a costruire un Centro di accoglienza e coadiuvato da un gruppetto di volontari, giorno dopo giorno raccoglie dalla strada e dalla perdizione decine di piccoli innocenti. Presto capisce che per incidere in quel tessuto disgregato bisogna fare e dare di più. Significava scontrarsi contro l'inerzia e l'incomprensione della burocrazia locale: per avere una rete fognaria, una scuola, un distretto sanitario, tutte cose che a Brancaccio mancano da sempre. Inevitabilmente il suo percorso lo porta a entrare in conflitto con gli interessi del potere mafioso, che da decenni domina la vita quotidiana del quartiere. Sono gli anni delle stragi di Capaci e di via d'Amelio, dove nello spazio di pochi mesi perdono la vita i giudici Falcone e Borsellino insieme a tanti altri. Proprio gli stessi clan che organizzano le stragi si trovano di fronte quel prete indomabile, quel parroco che insegna ai ragazzi a credere in un mondo diverso, a non sottostare alla sopraffazione. Lo avvertono: bruciano le case dei suoi collaboratori, incendiano la chiesa; lo minacciano, cercano di fare il vuoto attorno a lui, ma la sua fede non cede alle intimidazioni. E allora per toglierlo di mezzo non resta che la strada della viltà estrema. Fu assassinato il 15 settembre 1993, il giorno del suo compleanno, perché sottraendo i bambini alla strada, li sottraeva al reclutamento dei boss, che nel rione di Brancaccio, dove era nato, hanno creato da tempo immemorabile un vero e proprio vivaio di manovalanza criminale. Questa è la storia di Don Giuseppe Puglisi, ricostruita dopo dieci anni di ricerche, testimonianze, confidenze...

CRITICA a cura di Olga di Comite: << Portare alla luce del sole chi è dimenticato mentre deve essere ricordato >>: questo ha voluto fare Faenza nel suo film e c'é riuscito. Ha voluto anche parlare al cuore e non solo alla ragione. Per farlo ha scelto un linguaggio scabro e realistico, nel solco di maestri come Rosi e Petri, abbandonandosi contemporaneamente a un'ispirazione poetica rattenuta ma evidentissima nelle figure dei bambini che insieme a Don Puglisi sono il cuore del suo discorso. Questi costituiscono infatti l'elemento centrale del film per due motivi: 1) perchè rappresentano il peggio del peggio, cioè l'infanzia negata; 2) perché essi sono il nucleo che bisogna rigenerare per sottrarli all'influenza mafiosa che permea della sua sottocultura, delle sua economia, del suo violento veleno interi quartieri di città come Palermo. E padre Puglisi questo l'aveva capito benissimo. Raccontando con semplicità la storia di questo eroico antieroe dalla vita frugale e modesta, il regista traccia in parallelo il disegno del contesto, che brilla per il vuoto della politica, della partecipazione, delle organizzazioni religiose, delle istituzioni. La piovra è talmente radicata tra le povere case di Brancaccio che è quasi naturale, indiscussa la sua presenza e tutti, buoni e cattivi, sono preda della lebbra silenziosa del disinteresse. Don Puglisi, nei due anni di esperienza nel quartiere, parte da solo e muore solissimo. A parte i bambini e alcuni dei suoi giovani collaboratori, tutto il resto è deserto. L'oratorio è vuoto, le madri non possono sottrarre i figli allo spaccio e ad altre attività illegali (vedi scommesse sui combattimenti tra cani nella scena iniziale), perché non saprebbero sfamarli; i padri iniettano nei più piccoli il culto del malavitoso ricco e arrivato; i mafiosi si vedono per quello che sono, ometti volgari e violenti, che non hanno nessun elemento di fascinazione, come nella filmografia Usa. Ma niente di tutto ciò ferma Don Pino nella sua determinazione e nel sogno di portare un po' di speranza, di giustizia ai ragazzi dei luoghi dove era nato. Quell'uomo di chiesa che vive il suo magistero sparando diritto la verità, che cerca di insegnare ai piccoli l'esistenza di un mondo diverso, ha la stessa stoffa di Falcone e Borsellino, uccisi poco prima di lui. Il parrino è di quelli che bisogna togliere di mezzo per continuare indisturbati ad esercitare il potere tramite sopraffazione e paura. Ma la cosa più orribile che il film spinge a pensare è che a tanti anni di distanza, tra le tante cose che cambiano nel mondo, in quella zona di Palermo non è cambiato niente. Per un mafioso che va in carcere ne sono pronti altri tre, la maggior parte della gente è omertosa, la sopravvivenza economica dipende per essa dai boss, l'estraneo che entra nel quartiere, per il solo fatto di vedere anche senza parlare, non è bene accetto. Roberto Faenza ha dovuto girare in un altro luogo il suo film e gli ostacoli che gli sono stati frapposti ad ogni livello, burocratico, politico, ecclesiale, la dicono lunga su quanto la visione della sua opera risulti angosciosa per chi da spettatore assiste emozionato e impotente. Quando scorrevano gli ultimi fotogrammi, per un momento mi sono detta: ma il regista avrà esagerato, non è possibile, ma subito dopo ho pensato a quello che accade ora in alcune zone di Napoli e ho sentito un groppo in gola che neanche il sorriso finale di un bimbo molto espressivo nel film è riuscito a sciogliere. Un sentito bravo a Faenza che è stato capace di commuovere, ripetendo il miracolo de "I Cento Passi" di Marco Tullio Giordana. Luca Zingaretti, pure bravo, in alcune sequenze è un po' troppo dolce, da oleografia di Don Bosco. Un'ultima notazione: la naturalezza e la verità del racconto è tale che anche l'unico episodio di invenzione (il ragazzo suicida alla fine) è credibile; da brivido quella specie di danza della morte con la moto che inscena attorno a Don Puglisi prima di dare attuazione a quanto ha già deciso. Olga di Comite

SPIGOLATURE

Intanto diciamo alcune cose di Roberto Faenza. Regista in Italia e in America, è dal 1970 insegnante di mass-mediologia al City College di Washington e dal 1978 all'Università di Pisa. Per i film spesso prende spunto dalla letteratura, come accade in "Giona che visse nella balena" (1993), tratto da "Anni di infanzia" di Jona Obersh, "Marianna Ucria" (1997) dall'opera omonima di Dacia Maraini, "L'amante perduta" (1999) ispirato a "L'amante di Yehoshua".
Sentiamolo ora parlare del suo ultimo personaggio, padre Pino Puglisi, detto anche 3 P: << ... il suo assassinio fu in realtà l'epilogo di una lunga catena di incomprensioni, inadempienze e silenzi da parte di troppi, compresi gli intellettuali schierati, abituati ad esaltare gli idoli sotto i riflettori e a dimenticare gli umili che lavorano in disparte >>. Inutile dire che l'osservazione si commenta da sola. E continua il regista: << Chi era Puglisi? Un uomo vero tra tanti eroi di cartapesta... Trascinante e attuale, soprattutto per i più giovani, è la sua intuizione che per opporsi al degrado e al terrore dell'omertà, c'è un solo modo: cominciare dai piccoli >> (da Circuito Cinema, 12/04). Infine un'altra considerazione che mi sento di condividere in pieno: << Se oltre al lavoro di magistrati e polizia non c'è il coinvolgimento dell'umanità attorno per sottrarla all'influenza della mafia, la mafia non la debellerai mai >> (La Repubblica, 15/1/05).

 

INVITO

Invito alla visione in videocassetta di "Sostiene Pereira" di Roberto Faenza, altro film di origine letteraria, tratto dall'omonimo romanzo di Tabucchi. E poi due classici: "In nome della legge" (1949) di Pietro Germi, che anticipa il filone del film civile anni '70, sceneggiatori tra altri anche Fellini e Monicelli, "Salvatore Giuliano" (1962) di Francesco Rosi, opera sulla Sicilia, la mafia, il potere politico più che sul bandito.
Invito alla rilettura di tutta l'opera di Leonardo Sciascia.

 

PROVOCAZIONI

1. Per vivere nelle zone d'Italia più afflitte da mafia, camorra, ndrangheta, sacra corona unita, la sola alternativa è veramente tra l'essere eroi o l'accettare la sudditanza alla criminalità?

2. Avreste il coraggio di denunciare il pagamento del pizzo se la vostra attività si svolgesse in Sicilia?

3. Sarà vero, come sostengono alcuni, che il pizzo è per i commercianti una specie di assicurazione per continuare a lavorare in nero ed eliminare la concorrenza?

4. Pensate che sia possibile abolire mafia, camorra, ecc., senza una politica economica che garantisca quel pane quotidiano che la delinquenza organizzata assicura?

 

a cura di Olga di Comite

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