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RECENSIONE FILM BABEL

BABELANNO: U.S.A. 2006

GENERE: Drammatico

REGIA: Alejandro González Iñárritu

CAST: Brad Pitt, Cate Blanchett, Gael Garcia Bernal, Elle Fanning, Koji Yakusho, Adriana Barraza, Rinko Kikuchi, Said Tarchani, Boubker Ait El Caid, Nathan Gamble, Mohamed Akhzam, Peter Wight, Abdelkader Bara, Mustapha Rachidi, Driss Roukhe, Clifton Collins, Robert Esquivel, Yuko Murata, Satoshi Nikaido, Harriet Walter.

DURATA: 135 '

TRAMA: Nel silenzio del deserto marocchino due ragazzini armati di Winchester esplodono dei colpi, ma i proiettili vanno più lontano di quanto loro avrebbero mai potuto immaginare, ferendo Susan (Cate Blanchett), una donna americana in viaggio col marito Richard (Brad Pitt) su un pullman. Questo evento drammatico ha ripercussioni su quattro diversi gruppi di persone che vivono in altrettanti continenti: un'adolescente giapponese sordomuta e suo padre, una tata messicana perduta con i due bambini della coppia ferita ed il nipote Santiago (Gael Garcia Bernal), e la famiglia berbera dei due ragazzini armati. Le loro vite, i loro destini dipenderanno da un gesto del passato: il dono di un fucile. Perché ogni azione produce un effetto...

CRITICA a cura di Gabriela Saraullo: Filosofica, drammatica e cinematograficamente parlando, Babel è una straordinaria produzione che porta con se un enorme impatto emozionale ed intellettuale. Diretta da Alejandro González Iñárritu, Babel completa la trilogia iniziata con "Amores perros" (2000) e "21 Grammi" (2003). Anche se non gioca molto con il tempo come nei precedenti film, la struttura è simile. Il titolo ci fa intuire che il tema centrale è quello degli equivoci e della mancanza di comunicazione; difatti si parla in arabo, giapponese, spagnolo e inglese ed è stato girato in Marocco, a Tokyo, a Los Angeles e a Tijuana.
Mescolando le diverse storie, le frustrazioni, gli equivoci, le decisioni, la cattiva sorte e i terribili risultati, la trama trova un comune denominatore e ci porta ad un inevitabile risultato. Le intenzioni dei protagonisti forse non sono negative, ma le conseguenze sono tragiche. Il regista pone l’accento sulle complicate relazioni politiche e sociali tra cittadini del primo mondo e paesi sottosviluppati; anche se vivono in diverse parti del mondo sono collegati tra di loro.
La storia comincia nel deserto africano dove un padre di famiglia acquista un fucile per i figli affinché proteggano le capre dagli sciacalli. I due ragazzi decidono di provare il fucile e sparano su un autobus di turisti, ma la portata dello sparo è maggiore di quello che pensavano, e feriscono Susan (Cate Blanchett) moglie di Richard (Brad Pitt), una coppia di turisti in vacanza e in crisi dopo la morte di un figlio, ma le autorità sono sicure si tratti di un attentato terroristico. Nel frattempo, a migliaia di chilometri, il padrone del fucile che ferisce la Blanchett, un vedovo giapponese, non riesce a comunicare con sua figlia sordomuta che vive una crisi personale dopo il suicidio della madre; incapace di esprimere i suoi sentimenti con parole, ricorre al corpo e alla sua nascente sessualità. Nel frattempo una badante messicana porta due bambini americani in Messico per assistere al matrimonio del figlio. Il nipote (Gael Garcia Bernal) accompagna la donna in macchina, ma una volta arrivato al confine, per sfuggire al controllo della polizia, oltrepassa la frontiera e fugge lasciando la badante con i bambini nel bel mezzo del deserto. Questa storia riassume la situazione di migliaia di persone che cercano di attraversare la frontiera americana, la frustrazione degli immigranti in paese straniero e l’incapacità di esprimere il desiderio di avere una vita migliore.
La storia dei bambini marocchini parla più della disgregazione di una famiglia musulmana spirituale, che di un bambino perseguitato dalla polizia. Per il padre è forse più importante che il ragazzo spii sua sorella quando si spoglia, del fatto che abbia sparato contro un autobus. Ogni storia coinvolge padre e figli, tragedia e trascendenza, le cose personali e le situazioni globali, l’irrefrenabile desiderio di comunicazione.
In un solo istante, le vite di quattro gruppi di estranei in tre continenti collidono, si vedono intrappolate nella crescente onda di incidenti le cui proporzioni crescono senza poter essere controllate. Nessuno di loro arriverà a conoscersi, nonostante l’inattesa connessione che li unisce, rimarranno isolati perché incapaci di comunicare con le persone che li circondano. Le autentiche frontiere, più che linee fisiche esteriori, sono dentro di noi, sono le barriere del mondo delle idee. Quello che ci rende felici come esseri umani può essere diverso, ma quello che ci rende infelici e vulnerabili, oltre la razza, la cultura e la lingua è uguale per tutti. E’ un film sulle cose che uniscono non su quelle che separano, una sinfonia corale sulla mancanza di comunicazione, con diverse direttrici che si intersecano, si sfiorano, senza mai però sovrapporsi, muoversi o coincidere.
Il nucleo centrale è un tema del XXI secolo. Il film studia l’incomoda contraddizione che rappresenta vivere in un mondo dove la comunicazione, grazie alle ultime tecnologie, è semplice nell’ambito globale, ma i suoi abitanti si sentono lontani tra di loro, e isolati da barriere e malintesi superficiali. Gabriela Saraullo
VOTO:

CRITICA a cura di Olga di Comite: Autore ormai noto anche al grande pubblico dopo “Amores Perros” e “21 Grammi”, il regista messicano si riconferma attento e partecipe narratore della casualità e del destino, nonché della fondamentale incapacità di comunicare degli esseri umani. Pur eccessivo, il suo non è però un discorso di disperazione, perché qua e là qualche luce, qualche redenzione si accende in un mondo perlopiù percorso dalla sofferenza e da colpi di coda di un Caso il più delle volte nemico. Altro filo rosso che percorre il suo cinema, oltre al dolore, è quello della violenza con cui spesso Iñárritu lo rappresenta. Al servizio di questi contenuti, anche la scelta della struttura è simile ma non uguale alle opere precedenti. Siamo di nuovo, come in “21 Grammi”, a un’opera circolare, nella quale i protagonisti sono collegati tra loro senza saperlo, ma questa volta il cerchio si allarga fino a coprire paesi diversi e tra loro lontanissimi. I personaggi che compongono la trama non s’incontreranno mai, ma ciascuno vive situazioni da “frontiera”, perché c’è sempre un confine che divide non solo i popoli tra loro ma anche spesso separa i padri dai figli, il fratello dal fratello, l’uomo dalla donna. Quindi non c’è soltanto la confusione delle lingue cui si allude nella scelta biblica del titolo, che pure ha grande importanza: alle lingue lontane e spesso sconosciute si aggiunge il dramma della solitudine di chi non riesce più a dialogare anche nella stessa terra in cui è nato. Così incontriamo persone che a diverse latitudini hanno perso la loro identità o perché troppo ricche o perché troppo povere o perché sole o perché, in due, non riescono più a parlarsi.
Inoltre i luoghi prescelti non a caso esaltano con le loro caratteristiche le emozioni di chi guarda, vedi la tecnologia dell’Oriente e l’aridità sconsolata del deserto, per cui ci si sente vicinissimi alla protagonista giapponese o al pastorello miserrimo del sud del Marocco o alla frustrazione di chi, come i messicani, è discriminato perché emigra clandestinamente in terra d’altri. Lettura sociologica, politica, psicologica s’incrociano in questa struttura condotta con maestria, a volte troppo scoperta e non più sperimentale.
E’ qui forse il limite vero del film, insieme a un eccesso di esasperazione retorica del dolore, tipica delle culture latinoamericane. Ciononostante non ci si può sottrarre al fascino delle vicende che si precisano poco a poco ma si intrecciano solo alla fine. Il cast d’attori è in empatia con il regista, dalla raffinata e vibrante Cate Blanchette a un Brad Pitt più maturo del solito, all’umanità mortificata e dolente di Rinko Kikuchi fino ai due pastorelli marocchini scelti via altoparlante con un annuncio dai minareti della moschea. Dei particolari della trama non è importante parlare; il crescere della narrazione sullo schermo va seguito in diretta senza mediazioni, come si fa con le storie d cui è intessuto un grande romanzo. Olga di Comite
VOTO:

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