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RECENSIONE FILM NOTES ON A SCANDAL DIARIO DI UNO SCANDALO

DIARIO DI UNO SCANDALOANNO: Gran Bretagna 2006

GENERE: Drammatico

REGIA: Richard Eyre

CAST: Cate Blanchett, Judi Dench, Bill Nighy, Andrew Simpson, Max Lewis, Juno Temple, Alice Bird, Joanna Scanlan, Tameka Empson, Emma Kennedy, Tom Georgeson, Michael Maloney, Shaun Parkes, Philip Davis, Wendy Nottingham, Anne-Marie Duff, Debra Gillett, Julia Mckenzie, Diana Berriman.

DURATA: 92 '

TRAMA: Sheba Hart (Cate Blanchett) è la nuova professoressa di materie artistiche alla scuola St. George. Tra i suoi colleghi c'è l'anziana Barbara Covett (Judi Dench), una donna con cui Sheba stringe un forte legame di amicizia e che diventa anche depositaria di un suo torbido segreto. Tuttavia, la giovane insegnante non si rende conto che i sentimenti dell'amica vanno oltre la semplice amicizia, e le sue confidenze possono diventare un'arma pericolosa con cui Barbara può sfogare la sua gelosia...

CRITICA a cura di Olga di Comite: Due amori all’insegna del proibito, due donne la cui solitudine è simile e che perciò cercano un difficile oggetto del desiderio, due vite angosciate ed emblematiche della difficile tenuta oggi di ruoli e identità, due insegnanti in una scuola di periferia londinese percorsa da violenze e veleni che nessuna pennellata di cultura riesce a nascondere.
Storie inventate da Zoë Heller nel libro Notes on a scandal da cui il film è tratto, ma che alludono a fatti di cronaca in cui lo scandalo più pesante, anche sul piano della giustizia e della pena, è dato dalla relazione di un’insegnante, donna matura, con un alunno adolescente.
Alla trasgressione sessuale si accompagna infatti, in tali casi, il sospetto terribile del plagio.
Dal libro il racconto cinematografico riprende, in parte, la forma del diario che una delle protagoniste scrive riversando sulla pagina vuota il vuoto, le illusioni morbose e le pulsioni lesbiche della sua esistenza.
In quanto al linguaggio, devo confessare che ho un debole per gli autori inglesi, poiché in genere sanno accostarsi al testo letterario e, interpretandolo, si mostrano capaci di farlo con densità nella narrazione e pastosità di toni e sfumature nelle immagini. Il merito è anche nella sceneggiatura di Patrick Marber, capace di cogliere con intelligenza la complessità e l’apparente stranezza dei personaggi, specialmente nel ritratto dell’insegnante più giovane. La donna, spesso smarrita e un po’ fuori dalla realtà, non sa bene neanche lei che nome dare ai sentimenti che la spingono a mettere in crisi famiglia, professione e futuro.
L’irresistibile leggerezza di Sheba (Cate Blanchett) ha il suo contraltare nella perfida geometrica razionalità di Barbara (Judy Dench), che tesse la tela per catturare quel meraviglioso “insetto” dolce e biondo, ingenuo a suo modo, che le si è parato davanti ad inizio di anno scolastico. Chiarisco però che a mio parere sbaglierebbe chi leggesse nel comportamento dell’anziana solo morbosità, gelosia e rivalsa.
Tutto ciò è senz’altro presente nell’interiorità di questo essere frustrato e solitario, ma si mescola in una indecifrabile tessitura al desiderio d’amore e di tenerezza che vita e ruolo professionale le hanno negato. D’altra parte Sheba, che sembra avere tutto, grazia, bellezza, una famiglia e un marito, che pur con i loro limiti l’amano, dà corpo alla sua serpeggiante insoddisfazione e cede alle richieste amorose di un giovane allievo.
Lui quindici anni, lei alle soglie dei quaranta; Manzoni direbbe: “e la sventurata rispose”.
Di storia da raccontare c’è poco, perché scarni sono i fatti e tanti i risvolti dell’anima. L’autore è riuscito a darcene conto facendo capire le ragioni dei personaggi, senza assolvere né condannare. E questo mi sembra un buon risultato, dato che si tratta di tematiche irte di trappole più o meno moralistiche o giustificazioniste.
Non ho detto nulla di proposito sull’interpretazione fornita dalle due attrici, perché si commenta da sola e parla subito ai sentimenti del pubblico; due grandi in stato di grazia, anche se il piatto pesa leggermente a favore di una magistrale Judy Dench
. Olga di Comite
VOTO:

CRITICA a cura di Gabriela Saraullo: Uno dei film più controversi e audaci dell’anno è la produzione britannica “Diario di uno scandalo”, tratto dal romanzo “What Was She Thinking: Notes on a Scandal”, della scrittrice Zoe Heller, storia del complesso dramma di una professoressa che ha un legame con un suo allievo di 15 anni.
In modo maturo e solido, attraverso un disegno intelligente, il film racconta lo sviluppo non solo di questa relazione scandalosa, ma anche di altre che evidenziano le dimensioni delle condizioni umane, e lo fa con similitudine e senza eccessi grazie al talento del regista Richard Eyre. Come nel suo precedente “Iris”, i suoi personaggi sono esseri umani in carne ed ossa, con sentimenti, errori, debolezze, passioni e desideri, all’interno di una sceneggiatura vera ed effettiva che penetra nelle relazioni individuali senza convenzionalismi.
Il film colpisce nel segno perché le storie sono a partita doppia poiché è il racconto di due complessi e intriganti rapporti: non soltanto quello della professoressa sposata Sheba con il suo giovanissimo allievo, ma anche tra lei e Barbara Covett, una vecchia insegnante la cui personalità è disegnata in modo complesso e profondo. Storia di due ossessioni, di due donne intrappolate dalle proprie passioni autodistruttive e incontrollabili. Nessuna di queste due donne ha il controllo delle proprie azioni, così come molte persone non riescono a controllarsi quando sono innamorate.
L’apice del racconto non si raggiunge soltanto con la descrizione della scandalosa relazione con la quale Sheba commette un delitto penale perché il ragazzo è minorenne, ma anche con la descrizione di Barbara, una donna vecchia e solitaria che desidera stabilire legami possessivi con donne più giovani. Viene analizzata la sua personalità misteriosa, perversa, dominante e crudele, così fragile quanto ossessiva. E’ un messaggio psicologico carico di turbamento con la voce fuori campo come filo narrativo per mostrare, attraverso le citazioni del diario personale della vecchia professoressa, tutte le matrici di una personalità complessa che evoca il lato scuro dell’individuo.
Non si tratta di un assassino né di un maniaco schizofrenico, il cui comportamento sarebbe stato più prevedibile, ma di una persona raffinata e colta, che con spaventoso sangue freddo medita, analizza ed è cosciente delle conseguenze delle sue azioni, il che la rende più pericolosa. Proprio per questo la scena finale è penetrante poiché lascia immaginare allo spettatore le possibili tematiche che si aprono.
Opera di qualità e non convenzionale, trascendente e vigorosa che penetra nella mente dello spettatore che forse ha bisogno di una ventata di aria fresca contro l’ipocrisia del puritanesimo che invade il mondo; dove coesistono alienazione e assenze di relazioni, città che accolgono milioni di persone ma dove tutti ricercano la compagnia e la presenza di qualcuno a cui ricorrere.
Il romanzo pubblicato nel 2001 trasmette questo sentimento universale di solitudine e ossessione, delle relazioni di amicizia tra gli uomini e dell’ intossicazione di sesso, raccontato dal punto di vista di Barbara, disperatamente sola poiché non ha mai conosciuto l’amore ma al tempo stesso incredibilmente spietata.
Judi Dench compie alla perfezione la sua complessa e difficile interpretazione con un personaggio che va dalla malvagità fino alla vulnerabilità innocente, percorrendo le emozioni del ricatto, il tradimento e la manipolazione, con un concetto di amore malato sia nel darlo che nel riceverlo. Allo stesso tempo Cate Blanchett regala un’ottima interpretazione di un essere vivo con tanti difetti ma carico di versatilità e intensità.
Un film inquietante che dimostra con precisione quanto l'amore e la passione possano essere fatali se alimentati dalla monotonia disperante di una vita solitaria di cui non si riesce a vedere la fine. Alla fine la decisione sarà dello spettatore: stabilire se ci sono dei vincitori o solo dei perdenti, con l’amara considerazione che nessuno merita il perdono, dal momento che la crudeltà del carnefice è solo il riflesso della debolezza della vittima. Gabriela Saraullo
VOTO:

 
 

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