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RECENSIONE FILM HABEMUS PAPAM

HABEMUS PAPAMCRITICA a cura di Olga di Comite: La bellissima inquadratura iniziale dalla piazza dei funerali di Wojtyla, a salire in alto verso la cupola, seguita dalla seconda dall’alto verso il basso, fino alla lenta sfilata dei cardinali che si avviano alla Cappella Sistina per il conclave. Dall’uomo a Dio, da Dio all’uomo, uno in particolare, quello eletto dall’alto, tramite i suoi rappresentanti in basso sulla terra. La tenda di velluto rosso della finestra che, in assenza del papa che non s‘è affacciato, mostra dietro il buio vuoto dove doveva esserci una bianca figura.

Un’altra finestra con una tenda che oscilla come mossa da una mano, mentre i cardinali guardano trepidanti, ma che non è quella del Pontefice, bensì il frutto di un’ “astuzia” del suo portavoce. Il teatro invaso da una sfilata di cardinali in pompa magna, rigidi nelle loro vesti rituali, che lentamente riempiono la sala, mossi anch’essi da un sorta di universo liturgico come gli attori sul palco nella loro finzione scenica. Quel gruppo rosso che ingloba il Santo Padre riportandolo in Vaticano, dove però lui, Celestino VI (non a caso ma senza identificarsi col predecessore), riconferma tra lo stupore dei porporati dal suo balcone alla folla il sentirsi inadeguato a essere quello di cui oggi la Chiesa ha bisogno.

Queste sin qui ricordate sono tutte sequenze ad alto valore simbolico e si sa che tale linguaggio va decriptato e che ognuno nel farlo ci mette elementi suoi. Ma una cosa è certa: il papa eletto non si sente all’altezza di essere “una guida che porti grandi cambiamenti, che cerchi l’incontro con tutti, che abbia capacità di comprensione per tutti”. Eccola, a mio parere, in queste battute la critica al Vaticano da parte del regista, non diretta, frontale e sfrontata ma tuttavia limpida. Potremmo tradurla così: di questo tipo di atteggiamento si sente l’esigenza (la folla infatti applaude), perché sono queste le caratteristiche che mancano a una Chiesa, non arcigna, molto lontana però dalla vita vera. Moretti la osserva con guizzi di puro divertimento ma con rispetto.

Questa è poi anche la posizione politica del regista, defilatosi rispetto ad impegni di partito per una scelta più matura, di segno civile prima che di schieramento. Non è però solo in questo richiamo il valore di un film tra i più belli dell’autore. E’ un’opera diversa, con piste multiple di lettura, ma segnata da una sensibilità, naturalezza e leggerezza ironica che ne fanno, come è stato detto, “una commedia dolorante”. In essa (come ne La stanza del figlio, altra perla nella carriera di Moretti) non di bassa polemica si tratta ma di osservazione partecipe verso un essere umano in piena crisi esistenziale. Tale è la figura del neo-eletto, un umile servo di Dio dallo sguardo intenso e triste, consapevole dei suoi limiti, smarrito fino al panico di fronte al peso di responsabilità a cui è chiamato.

Egli non è vile, ma sente la sua inadeguatezza a operare quel grande mutamento di cui ci sarebbe bisogno. La fuga dal Vaticano, il suo errare per le strade di Roma in cui incrocia varie realtà, l’approdo alla fine in un teatro per quella che aveva sentito come la sua vocazione giovanile insoddisfatta, il muoversi agitato e ansioso alla ricerca di se stesso, trovano in Michel Piccoli una grandezza interpretativa senza discussione.

Altrettanto felice e vera è la caratterizzazione di Nanni Moretti nelle vesti dello psichiatra “dimezzato”. Infatti non potendo, lui che è il migliore, curare lo strano paziente con i mezzi ordinari della psicanalisi, si ritrova dopo la fuga di quest’ultimo, chiuso in Vaticano come vogliono le regole. Si mette allora a studiare lo stuolo dei cardinali, le loro puerilità, le loro allegrie bambine, le fredde stizzosità della vecchiaia, i desideri di evasione tipo boyscout, i comportamenti quasi da scolaresca senza insegnanti. E qui l’ironia elegante del regista, affidata a battute, a sguardi, a quadretti surreali, la fa da padrona.

A turbare l’equilibrio quasi perfetto di questo film da gustare è solo l’eccessivo spazio e la durata data alla felliniana partita di pallavolo giocata tra i porporati sotto la guida dell’insolito arbitro. Le scenografie sono curatissime (interni di palazzi nobiliari romani), i giardini sono quelli di villa Lante Della Rovere a Bagnaia, la fotografia di grana densa, chiara o dorata, è ineccepibile, le musiche di Marco Piersanti altrettanto, così come la sceneggiatura in cui Moretti è affiancato da Francesco Piccolo e Federica Pontremoli.

Sono una fan del regista dagli inizi in superotto di Io sono un autarchico e lo vedo crescere, cambiare e maturare come avviene a chi è ricco di talento e poesia, mentre il profilo gli diventa sempre più rapace, la barba grigia, lo sguardo non immune dai suoi lampi luciferini quando si diverte e fa divertire. Mi auguro di cuore che a Cannes non giochino contro le recenti divergenze Francia - Italia che niente hanno a che fare con l’arte, dovunque si manifesti. Olga di Comite
VOTO:

 

CRITICA a cura di Roberto Matteucci: Non io, Signore”. Nanni Moretti si diverte realizzando un film ucronico. Si parte dalle scene autentiche del funerale di Papa Wojtyla e poi immagina uno svolgimento diverso della storia. Il concilio dell’elezione di Papa Ratzinger sparisce e al suo posto ne appare uno finto e stereotipato. Sarà il rosso dei cardinali in lenta processione verso il conclave a riportarci dalla realtà alla immaginazione del regista. L’elezione del Papa è una delle scelte più difficili per la storia dell’umanità. Forse perché il primo a scegliere il Papa fu Gesù: “E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”. E perciò tutti, legittimamente, possono sentirsi inidonei rispetto al primo autorevole elettore.

La scelta è perciò complicata. Tutto un mondo di credenti e non osservano il momento fatidico della fumata bianca. Il Papa si rivolge a milioni di persone, e deve sempre essere autorevole perchè le sue parole sono ascoltate da tutti. Il suo è un regno assoluto. E’ eletto da un gruppo ristretto ma rappresentativo del mondo cattolico, e regnerà fino alla morte. Il compito del Papa è perciò inesauribile, ed il suo atteggiamento deve essere irreprensibile, perché lui rappresenta tutti i vescovi e l’intero popolo cattolico. Le sue scelte escludono discussioni, perciò il peso della decisione, dell’importanza di ogni sua parola, è stringente e rigoroso. Oltre duecentosessanta Papi. Molti sono stati uccisi, sono stati imprigionati, sono morti rapidamente, ma solo un Papa ha rinunciato: Celestino V, perché tutti una volta eletti sono consapevoli ed adeguati al compito. Il Papa nominato dal conclave morettiano, sente invece tutta l’inadeguatezza di questo incarico, non si sente all’altezza. Sembra non comprendere, o meglio comprende esattamente il peso di questa funzione. Il suo sì di accettazione è tremolante, poco convinto. Poco dopo il suo sarà un rifiuto secco. Il conclave e l’organizzazione perfetta del Vaticano si troveranno ad affrontare una situazione non contemplata. Le idee sono confuse, si improvvisa molto. La prima decisione è quella di convocare uno psicanalista per comprendere la paura del Papa. Nell’ambiente austero ed autorevole del conclave piomba perciò il Moretti psicanalista. L’incontro con il Papa sarà brevissimo ed il suo lavoro inefficace; ma nonostante tutto sarà costretto alla segregazione alla pari dei cardinali. Moretti si trova così a confronto e a giocare con loro.

La lunga diatriba interna del nuovo pontefice si concluderà dopo aver girovagato – senza apparente metà – per Roma per qualche giorno. La sua risposta di fronte al congresso dell’umanità cattolica – nel momento di maggiore festa, l’elezione del Papa - sarà quello di un gran rifiuto. Il film è bipartitico. Da una parte il dolore, la paura di un cardinale diventato Papa, mentre sognava di essere un attore teatrale; dall’altra il dialogo/confronto del Moretti psicanalista ed i cardinali. La prima parte è dolorosa, introspettiva, umanamente ricercata; la seconda è divertita, scanzonata e frivola. Su questi due binari diversi e opposti si dipana la trama. E’ proprio nella congiunzione dei due momenti appare la debolezza di Moretti. Il tratto unificante è una guardia svizzera ingorda e divertita nella sua finzione di essere il Papa. La confusione domina e si è sempre fuori tempo. Si ride, quando non si dovrebbe e si è tristi, quando dovrebbe esserci un sorriso. In realtà il Papa vagabondo in una Roma popolare non assume mai la maschera dell’uomo dubbioso. La sua passeggiata è troppo attaccata ai giochi e ai frizzi dei cardinali. La partita a scopa di Moretti ed i cardinali, mentre il Papa sta cercando di comprendere la sua vita frequentando attori, è schizofrenica e sintomatica. Troppa diversità; la mancanza del tratto unificatore è forte e vissuto da Moretti mortificando il suo gusto alla battuta ad effetto. Moretti non vuole dirigere un film partigiano. Anzi, cerca di muoversi con molta cautela, tratta i cardinali come pacchi denominati fragile. Non vuole essere irrispettoso. Se a volte lo sembra, bisogna riconoscere la sua altrettanta derisione nei confronti della scienza, rappresentata nel film dalla psicanalisi. Infatti, lo psicanalista non si prende sul serio, è disarmonico e sgraziato e finisce per scaricarsi addosso, inconsapevole, delle critiche spietate.

Anche Moretti ha una vita fallimentare. E’ stato abbandonato dalla moglie, della quale non riconosce la derisione nel suo dirgli di essere il migliore. Inoltre la accusa di diagnosticare sempre la stessa causa: il deficit di accudimento. Conosce una unica lettura della vita, quella di vedere ovunque la depressione – anche in un brano della Bibbia. E’ una psicanalisi da macchietta caricaturale quella di Moretti e di Margherita Buy. Da una parte hanno una vita disturbata, dall’altra sono sempre lì, pronti a predicare e riconoscere i difetti psicologici degli altri, senza osservare i propri. Questo è la dimostrazione di un Moretti moderato ideologicamente, ma in difficoltà lirica. E poi questa partita a pallavolo è una ripetizione infinita. Anche se avesse un messaggio metaforico risulterebbe noiosa a prescindere.

Metaforicamente l’accusa più grave di Moretti alla Chiesa romana è il suo distacco dalla gente, dal popolo. Il Papa girovaga in una Roma popolare, dove incontra diverse umanità, persone affaticate e persone distratte; la metafora è di volere un Papa in mezzo alla società, ed lo accusa – ingiustamente - di stare confinato nel palazzo. Senza la mitria papale e l’anello del Pescatore, il Papa è un uomo come tutti, nessuno lo riconosce; lo aiutano o lo cacciano per quello che è, non per la sua funzione di pastore dell’umanità. Allora Moretti usa il teatro come meccanismo parallelo della vita. Un palcoscenico è il mondo e basta indossare un vestito di scena per essere tutto il contrario. Per raccontare tutto questo, a Moretti gli sarebbe bastato un corto, allora ha allungato il brodo con dei divertenti siparietti, balli corali dei cardinali come se fosse la versione maschile di Sister Act. Il finale è quello della disperazione dei cardinali: se è Dio ha scegliere il Papa, possibile che questa volta abbia sbagliato? E’ la disperazione della Chiesa? A questo punto fortunatamente tutto si chiude e non lo sapremo mai.

Un Papa disposto alla rinuncia per paura è una storia avvincente. Però avrebbe avuto bisogno di un regista più solido, più abile nel leggere i reconditi meandri dell’animo umano. Ci è riuscito Ignazio Silone in L’avventura d’un povero cristiano, descrivendo il dramma etico, religioso e politico di un Celestino V non pauroso anzi consapevole di aver compiuto un profondo gesto energico di lotta. Per questo film ci sarebbe voluto un incomunicabile, un introspettivo come Michelangelo Antonioni. Lui avrebbe saputo utilizzare la tcm come un pennellata dal tratto vigoroso. Ma Antonioni è stato un grandissimo artista, mentre Moretti deve ancora farsi. E’ tutto intramezzato. Nei giochi ironici dei cardinali, avremmo preferito un Almodóvar o un Álex de la Iglesia. Le caricature sarebbero state più umoristiche, più sprezzanti, più ciniche ma anche più umane. Nel tentativo di non accusare nessuno, Moretti, finisce nell’esprimere poco e nulla e per giunta male.

Parafrasiamolo senza indugio: non sarebbe male l’idea di un film su una rinuncia di un regista perché inadatto alla storia assegnata. Non solo il Papa può essere inadeguato ma pure un regista. La sua colpa più grave è quella di essere stato ambivalente. E’ un film di un ateo pentito. L’ateo vorrebbe ritornare nell’alveo della grande casa della cattolicità per sentirsi nuovamente al sicuro. Ma è troppo debole perché possa riuscirci, enormi le delusioni della sua vita. Tutto ciò su cui ha creduto: i grandi ideali, i grandi partiti, i girotondi, a mano mano sono tutti franati nella indifferenza. Da venti anni sono oppressi e tormentati da una patologia ossessiva compulsiva incurabile. Soffrono di incubi notturni perché il loro "nemico" vince le elezioni e ha l’appoggio della gente notturna di Roma. Mentre loro si credono quelli belli, saggi, perfetti, i primi della classe; tutti dovrebbero pendere dalle loro labbra, invece ad ascoltarli, come ad andare a vedere i loro film, sono solo un piccolo spaurito esercito di tristi nostalgici. E’ tutto un fallimento. Questo ha creato la vera depressione. Moretti nella sua malinconica prostrazione si guarda intorno e vede la Chiesa: viva – ben organizzata – da oltre duemila anni. E’ quella la sua casa nativa. E’ lì vorrebbe tornare, però è ancora pieno di vanità e di superba vanagloria, perché non ha l’umiltà di riconoscere i suoi insuccessi. Allora ci fa capolino lentamente, vuole entrare in punta di piedi, nella speranza di una futura benevolenza. Questo film è un urlo di solitudine e di disperazione, di un Moretti sconfitto. Accogliamo il suo messaggio, aiutiamolo: "Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l'ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto". Roberto Matteucci
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