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RECENSIONE FILM HEREAFTER

HEREAFTERCRITICA a cura di Olga di Comite: Argomenti come questi affrontati dal vecchio leone americano nel film sono di quelli che imbarazzano e insieme attraggono.

Ci riguardano direttamente, anche se ognuno li affronta secondo la sua esperienza e formazione. Tutti, almeno una volta, ci siamo interrogati sul mistero della morte, sulla relazione tra questa e la vita, sui meccanismi profondi che una perdita induce nelle persone. A maggior ragione è logico che lo faccia un regista che non smette di stupirci alla soglia degli ottantuno anni e che ha già in preparazione un altro film.

Direi che la mano del maestro nel manovrare con fluida naturalezza la macchina da presa non ha subito grossi mutamenti; il montaggio è efficace come sempre, tutto si svolge in un continuum fatto di tecnica e scrittura. Solo due elementi cambiano rispetto alle opere precedenti: l’uso all’inizio degli effetti speciali per descrivere un rovinoso tsunami e la struttura del racconto che segue tre vite parallele in luoghi lontani e diversi, destinati alla fine ad incontrarsi. Nessuno dei due è nuovo nel cinema americano. Del primo si fa costante abuso in filmacci tutti uguali e assolutamente improponibili anche nel genere fantascienza; del secondo si è fatto uso in opere di vario valore, alcune molto interessanti (cito per tutte Crash, Babel e America oggi). Ma agli effetti speciali Eastwood dà un significato pregnante anche perché il fenomeno naturale di riferimento esiste e si è verificato nella realtà di recente; usando invece la struttura frammentata, i cui pezzi si ricompongono alla fine, ha voluto sottolineare come in luoghi diversi e lontani le reazioni di fronte a certe domande siano molto simili per tutti.

Le vite al centro del racconto hanno in comune esperienze estreme rispetto alla morte.
La giornalista francese Marie Lelay l’ha vista, il ragazzino inglese Marcus la subisce senza trovare pace dopo la fine accidentale del suo gemello, George, un sensitivo americano che riesce a mettersi in contatto con i morti degli altri, a furia di condivisione ha sentito la sua esistenza invasa dal dolore. Per tale motivo ha smesso di utilizzare quel “dono” - per lui una condanna - e ha scelto di fare una vita normale.

Nel corso del racconto i personaggi vengono inquadrati ognuno nella città dove vive, con una fotografia nitida e allusiva nel ritagliare gli spazi più adatti a qualificare il tipo di vita di ciascuno. Sullo sfondo di queste esistenze colpite in vario modo, c’è il rapporto difficile con l’aldilà inteso come presenza o come assenza. Il regista non fa l’errore di offrire soluzioni al riguardo ma presenta il problema da vari punti di vista. C’è chi sostiene che la morte azzera tutto, chi studia e affronta scientificamente i fenomeni paranormali e le mutazioni del cervello umano durante il coma, scrivendo al riguardo su pubblicazioni scientifiche. C’è chi sfrutta i bisogni di interrogare la morte e l’aldilà a livello di puro guadagno, da cinico ciarlatano. C’è infine chi mette al servizio dell’altro una facoltà difficile da vivere nella realtà ma consolatoria per il suo prossimo.

Come uscirne? L’unico scioglimento che Eastwood offre a tali domande è di abbandonare il passato, abitato da una perdita o da un evento traumatico come il coma, per un futuro che può avere il sapore dell’amore e di nuovi affetti. Se non possiamo esplorare più di tanto l’aldilà del confine possiamo riappropriarci con energia e tenerezza dell’aldiquà.

Gli attori sembrano tutti all’altezza del compito; in particolare lo sono le due protagoniste femminili. Belle e diverse, l’una solare e diretta, l’altra vibratile come un cerbiatto. Commovente anche il risultato del piccolo sensibilissimo Marcus. Tra i limiti del film citerei un eccesso di lacrime e momenti patetici, appannaggio, come spesso avviene, di personaggi non adulti. Anche il finale mi è apparso un po’ meccanico e frettoloso, perché l’approccio tra i due protagonisti adulti, da lontanissimo si fa precipitoso e poco plausibile nel suo immediato volgere in sentimento amoroso. Ma a un regista così qualche smagliatura si può perdonare. Olga di Comite
VOTO:

 

CRITICA a cura di Roberto Matteucci: Clint Eastwood affronta con coraggio il tema della morte. In Gran Torino il problema della morte è intenso e lancinante. Walt Kowalski sta per morire – e non solo fisicamente – ed è consapevole dell’arrivo prossimo della sua dipartita. Scaccia la paura e lo sgomento affrontandola a viso aperto e decidendo di sacrificarsi per una persona a cui vuole bene improvvisamente. In Gran Torino nulla è metafisico, tutto è decisamente molto materiale: l’organizzazione della sua morte e le sue volontà; nonostante il prete, polacco e cattolico, cercherà di trovargli la sua dimensione spirituale.

In Hereafter Eastwood va oltre alla morte, vuole indagare sull’aldilà - Hereafter. Domanda: quale sarà la nostra sorte? Dove andremo a finire? Risposta sicura e certa: non lo so. “Nonostante le tante sedute non so dove vanno.” Risponde sconfortato il medium. Eastwood abbandona l’eroico e virile atteggiamento e si pone a metà strada: osserva, guarda, si interroga e finisce con lo sperare.

Cosa succede dopo la morte è parte dell’intrinseca debolezza fatale degli esseri umani; ci poniamo il quesito solo per procurarci del dolore perché in realtà non esiste una risposta univoca. Ad eccezione dei credenti! Ed ecco apparire il protagonista mancante di un film sulla morte: Dio. Però Eastwood non è un ateo. Nel film è assente all’arrogante certezza di onnipotenza dell’ateo; egli potrebbe essere un non credente e come tale si pone moltissimi dubbi. Scettico decide di non parlare di Dio solo perchè crea il personaggio di George Lonegan – un ispirato e stanco Matt Damon. E’ lui il ‘’Dio’’ di cui non c’è traccia nel film. E’ lui il vero medium; mentre i veggenti intorno a lui sono solo degli imbroglioni imbonitori la cui finalità è approfittarsi delle miserie e delle disperazioni di persone sconfortate da una perdita ritenuta ingiusta. George riesce a contattare i morti, gli parla, li capisce e da sollievo ai parenti in vita. “Ma una vita in cui si parla sempre di morte, non è vita.” Infatti George è sofferente, tormentato, triste ed abbandonato da chiunque provi ad avvicinarsi a lui. L’unico sollievo lo trova nelle parole dello scrittore Charles Dickens. E’ lui ad avere un immenso bisogno di aiuto. Cerca di sottrarsi come un Messia dalla folla alla ricerca del miracolo: lo cercano, lo supplicano di contattare i defunti, ma loro seguono il loro interesse personale non c’è nessuno – neppure il fratello - interessato a lui, al suo dramma, nessuno si vuole impegnare per lui. Lui non può salvarsi, è un predestinato; il suo è un calvario e deve portare la sua croce in giro per il mondo.

Il film ha tre strade parallele. Ha tre città protagoniste: Parigi, Londra e San Francisco. Si parte dallo tsunami in Asia nel Natale del 2004 e ci si ritrova a Londra a luglio del 2005 nel momento dell’attentato alla metropolitana. Momenti storici e tangibili; vicende concernenti un lutto collettivo. Sono attimi utilizzati per incrementare la tensione, la drammaticità della pellicola, perchè a volte rischia di scivolare e di perdersi in una nebbia fitta composta da irrealtà e dubbi enfatizzati.

Eastwood, ha dalla sua la forza di una bravura estetica, utilizza dati concreti per dare solidità alla storia affrontando il tema della morte in modo diverso. Non tratta il problema dell’anima e neppure quello del peccato. Nessuna differenza c’è fra i morti, stanno tutti insieme nello stesso luogo: sia le persone buone sia gli stupratori di figlie. La mancanza di giustizia e moralità non appartiene invece a Eastwood. Allora vuole dare una struttura di solidità ai personaggi, concentrandosi sulle persona rimaste in vita rispetto ai morti. Cécile De France è Marie LeLay, una giornalista francese ‘’morta’’ per qualche istante. Marcus è invece il fratello gemello sopravissuto a Jason, morto per sua colpa. La camera zooma in tanti primi piano, i visi occupano l’intero schermo. Tanti sono giochi di luce ed ombra: soprattutto i volti sono sempre metà in luce e metà in ombra. Tanti passaggi di camera da un personaggio all’altro, veloce a seguire le parole; tanti i confronti vis-à-vis fra gli attori. Questo concede al film l’opportunità di originare una dicotomia tra bene e male, tra giustizia e prevaricazione. Soprattutto ci costringe a pensare e riflettere sulla capacità umana a comprendere la morte. All’infimo e sempre sterile tentativo di comprendere sempre tutto. Se neppure Dio-George sa dove sono i morti chi può saperlo? L’interrogativo è d’obbligo nel film. Questo perché l’uomo è debole e limitato, con le sue forze non può rispondere alla chiamata della voce dall’infinito.

Non ci sono certezze, salvo la bellezza del film, nonostante le difficoltà della sceneggiatura, di una storia poco solida, di personaggi in costante travaglio. Eastwood miscela il tutto: usa la sua abilità tecnica, il suo linguaggio cinematografico e rende il prodotto peculiare. Un cinema sulla morte diverso – non ci sono fantasmi e spiriti, non c’è reincarnazione – ma solo tanta ansia. Preferisco la morte catartica di Gran Torino: reale e vera. Kowalski è il personaggio schietto, immediato, cattivo; è un Eastwood decisionista con scelte certe e dolorose rispetto agli oscuri dubbi impenetrabili di Hereafter. Roberto Matteucci
VOTO:

 

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