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RECENSIONE FILM HOSTEL

HOSTELANNO: U.S.A. 2006

GENERE: Horror

REGIA: Eli Roth

CAST: Jay Hernandez, Derek Richardson, Eythor Gudjonsson, Barbara Nedeljakova, Jana Kaderabkova, Jan Vlasak, Jennifer Lim, Lubomir Silhavecky, Paula Wild, Lubomir Bukovy, Petr Janis, Jana Havlickova, Vanessa Jungova, Martina Kralickova, Takashi Miike, Daniela Bakerova, Zina Blahusova, Josef Bradna, Ota Filip, Jakub Habarta, Milda Havlas, Drahoslav Herzan, Rick Hoffman, Martin Kubacak, Petra Kubesova, Mirek Navratil, Christopher Allen Nelson, Barbora Oboznenkova, Zigo Patrik, Nick Roe, Petr Sedlacek, Vladimir Silhavecky, Jan Spanbauer, Miroslav Taborsky, Mark Taylor, Natali Tothova, Radomil Uhlir, Lubos Vinicky, Katerina Vomelova, Philip Waley.

DURATA: 90 '

TRAMA: Paxton (Jay Hernandez) e Josh (Derek Richardson) sono due amici americani, compagni di college, che esplorano l'Europa con gli zaini in spalla, insieme al nuovo amico Oli (Eythor Gudjonsson), un islandese incontrato lungo la strada. Arrivati nell'insolito ostello della gioventù di una sperduta città slovacca, frequentato da donne dell’Est europeo tanto incantevoli quanto pericolose, i due amici si abbandonano alle lusinghe di due splendide ragazze, Natalya (Barbara Nedeljakova) e Svetlana (Jana Kaderabkova). Presto i due americani, però, si trovano coinvolti in una situazione sempre più minacciosa ed inquietante...

CRITICA a cura di Giovanni Angioni: Tre ragazzi, due americani ed un finlandese – Paxton, Josh ed Oli -, girano per l’Europa alla ricerca di trasgressione ed emozioni forti. Ma uno strano incontro li farà passare dai bordelli di Amsterdam ad un piccolo ostello nel cuore della dove non troveranno solo belle ragazze e sesso facile... La storia c’è.

Inutile scagliarsi contro il regista accusandolo di aver costruito il nulla intorno ad alcune delle scene più crude e fastidiose che si siano mai viste nel cinema occidentale dopo l’occhio di Bunuel.
Ed ancora più inutile sarebbe accusarlo di aver voluto scimmiottare la nouvelle vague orientale che, in Giappone come in Corea del Sud, sta portando i registi a mostrare tutto quello che il pudore di qualcuno ci aveva fino ad oggi risparmiato.
Perché Roth, così come Kim Ki-duk con "Samaria" o Shion Sono con "Suicide Club", non vuole solo disturbarci, far pulsare con violenza il nostro stomaco per farci usare il sacchetto distribuito all’ingresso della sala, ma vuole dirci qualcosa.
Ed il problema vero del film, infatti, sta nella nostra capacità di coglierne il messaggio.
Perché sarebbe davvero troppo semplicistico ridurre tutto ad una critica alla perversione umana ed ad una nuova moderna ricerca di eccessi, apparentemente sempre più frequente nella vita di chi non riesce più ad uscire dalla propria insoddisfazione.
Perché più le scene mi scorrevano davanti agli occhi, più la mia mente rimaneva ancorata altrove, su alcuni dialoghi, su delle inquadrature, su molti sottointesi che non potevano essere di un’importanza davvero marginale: credo anzi che se si potesse avere il tempo di vedere la pellicola tante volte da diventare totalmente insensibili alle interminabili scene di tortura da macelleria, allora sarebbe tutto più semplice da capire.

Verrebbe fuori quasi da sé come non sempre la spiegazione più evidente e semplice di ciò che abbiamo davanti agli occhi possa davvero riuscire a soddisfare la nostra “tantalica” sete di verità.
Accantoniamo infatti violenze e preversioni da infarto, concediamoci di guardare con occhi e mente piùttosto che con occhi e ventre: cosa rimane?
Rimangono tre giovani, due nordamericani ed un europeo, sostanzialmente identici.
Identici nel loro scherzare, nel loro cercare spasmodicamente droga e sesso e nel loro usare quel magnifico strumento in comune che è l’inglese.
Perché se Hostel è un "Appartamento Spagnolo" che va a finir male, in cui quelli che si frequentano non diventeranno mai amici di una vita ma vittime e boia, la vera chiave di lettura di questo film – ad un passo dall’essere generazionale – è il multilinguismo.
Loro tre, come noi, vivono di inglese, respirano inglese e lo usano come passepartout per aprire qualsiasi porta di cui abbiano bisogno, esattamente come un qualsiasi ventenne di oggi.
Sarà l’inglese a farli fumare nei coffee shop e fargli conoscere le splendide prostitute di Amsterdam, sarà con l’inglese che conosceranno chi li manderà dritti al’inferno, e sempre grazie a l’inglese moriranno gridando l’atrocità della loro sofferenza.

E come l’inglese sarà la morte di Oli e Josh, il tedesco sarà la salvezza del Superman Paxton (...siamo sempre pur sempre negli Stati Uniti...), che cogliendo un briciolo di indecisione nel suo inquisitore incamiciato pagante, riuscirà a sopraffarlo mettendolo in crisi parlandogli nella sua lingua.

Qualcuno si è anche lamentato che le parti non parlate in inglese del film non siano state sottotitolate: meglio, dico io, perché si sarebbe persa di vista l’importanza fondamentale che le lingue, la comunicazione verbale, hanno all’interno della storia.
Oli, Paxton e Josh diventano amici e trovano le ragazze perché parlano inglese, ma non capiscono nulla del loro gioco perché non conoscono il ceco.
Gli assassini pagano per avere qualcuno da uccidere che non capisca la loro lingua così da non avere nessun intralcio tanto le preghiere e le suppliche di pietà si riconoscono anche senza capire le parole.
E Paxton si salva proprio per questo, perché rompe il circolo vizioso dell’ignoranza, perché lui può comunicare, può parlare, può intervenire nel mondo senza doverlo semplicemente subire.

Insomma per quanto provocatorio possa apparire, Hostel sembra quasi essere un film adatto a quasi tutti.
A chi ama uscire dalla sala pallido ed in silenzio per il mal di stomaco, a chi, dopo il film, ha voglia di ragionarci su davanti ad una buona birra.
Ed a tutta quella "generazione Erasmus" che, forse, potrebbe riflettere per la prima volta della pericolosità di avere vent’anni al giorno d’oggi. Giovanni Angioni
VOTO: 7,5

 

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