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RECENSIONE FILM IL DIVO

IL DIVOCRITICA a cura di Olga di Comite: Se Gomorra è un film realistico al fuoco freddo, Il Divo è un’opera altamente simbolica, a tratti grottesca, quasi da farsa, a cominciare dal protagonista, che, svuotato quasi del tutto di momenti umani, è una specie di icona cupa e un po’ gelida del Potere con la P maiuscola. La conclusione del film ribadisce la natura profondamente complicata e misteriosa di quegli anni della nostra vita politica, mentre l’unico discorso un po’ più lungo messo in bocca ad Andreotti ce ne dà la chiave interpretativa.

Afferma infatti il nostro, uscendo per un attimo dalla sua impassibilità, che il Potere può anche essere costretto a macchiarsi di nefandezze, se queste servono a tutelate il Bene comune, o addirittura la sopravvivenza dello stato. E sembra chiaro che qui si allude alla vicenda di Moro, di cui il Divo porta nel film un durevole rimorso. In una scena precedente, a Scalfari che lo intervista polemizzando con lui, Andreotti risponde di essere lieto che il giornalista abbia capito l’esistenza della complessità; anche nei comportamenti politici.

A parte ciò, il fascino del film si concentra nella interpretazione, in chiave suggestiva, a volte surreale (vedi passaggio del gatto bianco nel salone oscuro e deserto) dell’atmosfera che avvolge chi esercita a un certo livello il potere. Quest’ultimo difficilmente può non essere ambiguo e soggetto almeno a due interpretazioni diverse. Ad esempio, una è quella di Andreotti che ogni mattina, quasi all’alba, percorre le strade di Roma con la sua scorta nutrita per recarsi in chiesa, dove, uscito dal confessionale, si genuflette in preghiera.
L’altra è quella del furbo capo corrente della DC che si ritrova in tutti gli scandali e le vicende più oscure legate a mafia, giornalismo scandalistico, stragi, degli anni precedenti la fina della Prima Repubblica fino al processo che lo vede implicato. Alla fine sarà assolto non con formula piena ma per sopravvenuta prescrizione del reato.

Accanto a lui, Sorrentino dipinge veri e propri ritratti, un po’ alla maniera di quelli della borghesia romana di Sughi. Si tratta di coloro che formano il suo milieu, il gruppo di fiancheggiatori più stretti che ne fanno parte e alcune donne che sovrintendono alla sua vita personale. Spiccano tra gli altri un Pomicino sempre all’erta, mondano tessitore di rapporti politici e di serate danzanti. A lui si affiancano Sbardella, detto lo Squalo, e un ineffabile Franco Evangelisti (“A Giù, che te serve?”), reso da Flavio Bucci con la sudaticcia fisionomia del servo non sciocco, ma tale per scelta. A proteggere il suo privato c’è invece la segretaria Enea (Piera Degli Esposti). Mentre sempre sullo stesso piano interpretativo Anna Bonaiuto dà vita al personaggio della moglie Livia, che segue con attenzione tra l’affetto e il disincanto le vicende di quell’essere disincarnato che ha al fianco. A riguardo sembra invece che il divo Giulio fosse abbastanza gradito alle signore, secondo pettegolezzi dei suoi sodali.

In un’atmosfera quasi sempre buia o di luce che si fa largo a fatica, in ambienti rischiarati dalla luce artificiale con persiane quasi serrate e sale del potere di una sontuosità triste, si snodano dilatati dalla fotografia i fatti ricostruiti, per flash e accostamenti di personaggi, dalla mano abile di Sorrentino. Ne scaturisce il “romanzo” di quel periodo; ma attenzione! Quella narrazione così personale è una reinterpretazione di fatti realmente avvenuti da cui si deve partire. Nessuno può smentirli, ed essi servono per capire o per rimanere nell’enigma, a seconda dei casi. E’ proprio questa la forza del film e la sua bellezza. Attraverso simboli, metafore, battute, in quegli occhi dietro le spesse lenti si specchiano come fantasmi quasi mai decifrabili accadimenti che spesso grondano sangue, ma avvolti nella nebbia dei segreti di stato o sepolti in quell’archivio privato, che ancora oggi fa paura a tanti.

Inutile sottolineare ancora una volta la bravura e la versatilità di Toni Servillo che, dal nostrano Maigret de La Donna del lago, passa al sornione mediatore nello smaltimento dei rifiuti tossici (Gomorra) per poi approdare a quest’ultimo personaggio di cui ricrea postura, gesti, silhouette, pur senza somigliargli di un grammo.
Godibile la musica che riscopre brani d’epoca, tra cui una indimenticata 'E la chiamano estate' di Bruno Martino, al suono della quale si svolgono i riti salottieri della Roma di allora, frequentati ieri come oggi dai cavalli di razza o di casta
. Olga di Comite
VOTO:

 

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