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RECENSIONE FILM IL DISCORSO DEL RE THE KING'S SPEECH

IL DISCORSO DEL RECRITICA a cura di Olga di Comite: Candidato a 12 premi Oscar e già vincitore di importanti premi, con queste credenziali si presenta Il discorso del re, per quanto mi riguarda l’opera più interessante vista negli ultimi mesi. Non credo si tratterà di una pietra miliare nella storia del cinema, ma certo è un lavoro coinvolgente, ben diretto, ottimamente recitato, raffinato e semplice. In una parola un classico.

La trama si rifà a personaggi e fatti della storia recente. Al centro la figura di Giorgio VI d’Inghilterra, padre dell’attuale regina, succeduto al fratello Edoardo VIII che abdicò al trono per sposare la divorziata e discussa Wally Simpson. Mentre questo avviene in Inghilterra, Hitler in Germania si prepara alla guerra e ben presto il conflitto coinvolgerà anche la Gran Bretagna. Toccherà al nuovo re, afflitto da sempre da una balbuzie poco adatta ai suoi obblighi di regnante, fare alla nazione il discorso che deve dare la carica al suo paese e risvegliarne l’orgoglio.

Il film altro non è che l’analisi del percorso di cura del re, iniziato prima di questi fatti quando era ancora il principe di York. Su insistenza della moglie Elisabetta egli si convince ad affidarsi a un logopedista australiano poco noto, empirico e sui generis come individuo. Da questo incontro, prima contrastato, che poi diventa quasi un’analisi freudiana, nasce un’amicizia che durerà tutta la vita. A impersonare le due figure troviamo Colin Firth e Geoffrey Rush: non saprei davvero chi dei due è più bravo e convincente. Allo stesso livello mi è apparsa sapientemente disinvolta Helena Bonham Carter nel ruolo della regina consorte della quale ha saputo rendere con grazia la personalità.

Regista del film è Tom Hooper, da noi poco noto ma autore di opere tv di gran successo in patria. Anche se giovane, sembra già abile nei dipinti biografici perché sa ricreare personaggi potenti senza agiografie, ma scegliendo di guardarli dall’ottica delle sfaccettature umane e più intime. Qui l’occhio che indaga sulla natura complessa del re è quella del logopedista, che poco a poco ne cattura la fiducia, trattandolo con rispetto non formale ma anche con confidenza. Così ne supera la spigolosità, facendo affiorare i veri motivi alla base del suo problema. Le cause della balbuzie si radicano infatti nel rapporto con un padre ingombrante, nei complessi d’inferiorità verso il fratello brillante ed estroverso e quindi in una carenza di autostima. Ostacoli non da poco per chi si trovi a guidar un regno e un impero in tempi difficilissimi. Grazie alle “sedute” con il suo strano guaritore, maniaco di Shakespeare che conosce a memoria, padre attento di tre figli, mai laureato ma esperto in esercizi di scioglimento, anche tramite la musica e sani scoppi di ira, il futuro re supererà le sue remore.

I duetti tra gli interpreti principali sono gran parte del racconto, ma tutti i particolari sono curati dalla regia. Pochi tocchi indovinati rendono bene l’atmosfera nebbiosa e cupa della Londra dell’epoca. Gli interni, poco luminosi, ricchi di boiserie e toni caldi, danno il senso di una vita elegante ma sottotono, sia che si tratti delle residenze regali sia delle case borghesi con caminetto e vetrate di quel tempo da cui filtra poca luce. Quella suggerita con maestria è un’Inghilterra ancora salda nei suoi riti, nelle sue brume, nella propria ricchezza non esibita.

La fotografia di Danny Cohen, quasi seppiata negli interni, alterna i colori ocra di questi ai grigi cupi o chiari degli esterni. Le inquadrature spesso sono laterali a metà schermo su uno sfondo unico di colore se si tratta di Colin Firth. La macchina invece zooma sulla bocca e sul viso del principe non ancora re di fronte ai grossi microfoni radiofonici di allora. Ottimo anche lo script di David Seidler con dialoghi perfetti nelle pause, con punte emotive che lasciano un po’ in sospeso il pubblico in momenti clou. Il discorso del re non scuote dal profondo gli spettatori, ma certo li affascina e li irretisce con sobrietà ed eleganza. Olga di Comite
VOTO:

 

CRITICA a cura di Roberto Matteucci: “Non siamo una famiglia, siamo una ditta”. Albert Frederick Arthur George Windsor era il secondo figlio di re Giorgio V. Nominato duca di York, fra i suoi compiti c’è quello di presiedere e tenere interventi pubblici. E’ il mestiere di un sovrano. Ma il principe ha una preoccupazione: soffre di problemi di linguaggio. In pratica è balbuziente. Davanti ad un pubblico, davanti ad un microfono il principe si blocca, incapace di parlare, di esprimersi. I tempi cambiano e la famiglia reale ne è consapevole. Come giustamente proclama il padre, re Giorgio V: “Siamo degli attori”, e la dinastia reale deve adeguarsi.

Indossare una bella divisa non è più sufficiente, bisogna essere brillanti interpreti di discorsi scritti da altri; solo apparendo si potrà continuare a ricevere le attenzioni dei sudditi e continuare a regnare. Molteplici cure saranno tentate per curare Albert, tante bizzarre e al limite della stregoneria, ma tutte senza risultato. Sconsolata, la moglie si rivolgerà a Lionel Logue, un australiano. Vive a Londra con la sua famiglia. Amante e desideroso di interpretare William Shakespeare, è attore frustrato dai tanti rifiuti. Finisce a dedicarsi con abilità alla cura di individui con problemi di linguaggio. Inizia a questo punto la storia umana di due personaggi diversi, singolari ed ironici. L’ambientazione del loro incontro parte da un muro dipinto casualmente dai pazienti con colori opachi: questo è lo sfondo di competizioni e scontri. La prima visita è notevole. E’ un duello medievale eseguito da colpi veloci di primi piano, la camera passa dall’uno all’altro come due spadaccini impazienti di colpire l’avversario. I due sono intelligenti, e sono pure ironici; per questa dote avranno la facilità di aprirsi uno con l’altro nel tempo. La sedia di Lionel dopo essere partita distante – per rispetto – si avvicinerà lentamente. Scoprire il problema di Albert è difficile. Lionel comprende immediatamente l’inesistenza di difficoltà meccaniche e cercherà di concentrarsi sul passato e l’infanzia del principe. Il duca di York si ribellerà, gli opporrà resistenza e lo costringerà ad una resa momentanea.

E’ impossibile per un uomo di sangue blu scoprirsi realmente. Mostrare le difficoltà e l’umanità di una persona con una corona non è consono alla regalità e nobiltà dei sovrani. Ma è tutta apparenza. Questo tema è conosciuto. E’ già stato affrontato con molta delicatezza e bravura nel film di Stephen Frears: The Queen. In questa vicenda a trovarsi nel lettino di uno psicoterapeuta immaginario si trovava la regina Elisabetta II; e delicatamente la bambina appare nel Il discorso del re già impostata nel suo futuro incarico Albert lentamente e con fatica scoprirà i suoi blocchi psicologici. Una infanzia solitaria, senza amici. Un fratello maggiore abile e insensibile. Una tata cattiva non lo nutriva e lo martoriava per ridicolizzarlo nei confronti dei genitori. Il tentativo violento di correggergli il suo mancinismo, la sua imperfezione alle gambe. Emerge principalmente la solitudine di un uomo di potere. E’ ricco, è un principe della più potente famiglia reale del mondo, però non ha amici. Non ne ha mai avuti e non sa affrontare la vita. Tutto si aggraverà con la morte del padre. Il fratello gli succederà, ma Edoardo VIII, per aver scelto una donna americana divorziata e soprattutto per le sue simpatie a Hitler sarà obbligato ad abdicare a favore di Albert. Albert Frederick Arthur George Windsor sarà incoronato con il nome di re Giorgio VI.

“Io non sono un re” confesserà al suo terapeuta preso dal panico. Tutte le paure sono amplificate, la sua debolezza linguistica diventa incontenibile. Però ora nulla gli può essere più perdonato: lui è il re. Ora tutto sovrasta su di lui. I maestosi ritratti dei suoi antenati sono giganteschi ed incombono sulla sua testa e soprattutto sulla sua fragilità. L’Abbazia di Westminster, è imponente e spettacolare. E’ ripresa maestosa dall’alto rendendo tutti gli uomini piccoli. I palazzi del re sono la sua prigione. La camera è in alto o in basso per specificare la incombente mostruosità del ruolo su una persona fragile e sola rispetto al mondo circostante. Il finale è inesistente perchè narrato sui libri di storia. Re Giorgio VI fu il re dell’Inghilterra durante la seconda guerra mondiale. Fu amato dal suo popolo per la sua volontà a vincere e per la sua fermezza nei confronti dei sacrifici bellici. Nonostante i bombardamenti tedeschi su Londra, il re e la sua famiglia rifiutarono di lasciarla e di rifugiarsi in Canada come suggerito dal governo. Morirà nel 1952. Gli succederà la sua primogenita Elisabetta, dall’epoca regina di Inghilterra.

La storia è convenzionale, ma il film è molto bello grazie alla capacità di presentare un prodotto classico in modo spontaneo e attuale. Non si parla di un re, si narra di un qualsiasi uomo di potere. La vita di un uomo potente dovrebbe essere facile. Circondato da gente abile nel decidere per lui, dovrebbe essere solo un attore di sceneggiature scritte da altri. Eppure anche una persona dominante potrebbe essere inadeguato a mostrare la sua verità interiore, la sua umanità e soprattutto terrorizzato dalla vita e dalle persone. Il re Giorgio VI è spaventato dal suo futuro e ha il terrore di regnare. Ha come esempi il padre ed il fratello, lui lì vede come irraggiungibili per la loro autorità, per la loro abilità a governare e per l’unanime rispetto. Lui si rimpicciolisce, si trasforma in una caricatura con la sua divisa da ufficiale della marina con le tante gigantesche medaglie sul petto. La storia della sua potente famiglia lo spaventa al punto di essere incapace di parlare pubblicamente. Si sente inadeguato. In realtà non lo è, e lo dimostrerà. Per riuscirci avrà bisogno di un aiuto, di un alleato e di un amico. Il periodo negazionista del proprio essere prevale all’inizio. In questa fase il futuro amico è un avversario, perchè il dottore ha compreso dove nascono gli impedimenti: il re è un debole pauroso per le tante difficoltà educative. Successivamente da questa fragilità trova la forza per reagire. Il re dovrà compiere un notevole gesto di umiltà – scusandosi – per trovare un amico. Seguirà la consapevole opportunità di accrescere il proprio orgoglio ed autostima, riuscendo a guarire e a svolgere il suo mestiere: essere un re e parlare fluidamente alle nazioni.

“Se io sono il re, dove è il mio potere? Posso dichiarare guerra? Formare un governo? Imporre una tassa? No! Eppure io sono la sede di tutte le autorità perché pensano che quando parlo, parlo per loro”. Allora bisogna essere re moderni e rivolgersi non solo ad un pubblico limitato ma comunicare, con l’ausilio di un microfono, a tutto l’impero: milioni di persone. C’è l’umanità intera negli strumenti della BBC; la camera si sofferma sui tanti nomi delle nazioni dell’organizzazione del Commonwealth in ascolto trepidamente. Nonostante le tante sicurezze anche Lionel ha delle debolezze e paure. Non è un dottore. Ha imparato nella pratica ma non ha titolo di studio. Proviene dalle colonie e desidera recitare, ma è sbeffeggiato. Tutti lo rifiutano. Geoffrey Rush è Lionel Logue, ed è abituato ad essere al servizio della Corona inglese. In Elizabeth e Elizabeth: The Golden Age interpreta il machiavellico e terribile Sir Francis Walsingham.

Tutto il linguaggio del film è basato sull’approccio fra il re ed il dottore. Il muro dipinto ed un divano sono il primo territorio di battaglia. Il conflitto si sposterà in seguito sul trono dell’abbazia; raggiungerà poi il terribile e mortale microfono. Le immagine deformate rappresentano l’incredulità degli avvenimenti, inaspettati per un re. Tom Hooper sa tenere leggero il ritmo del film. Conosce gli attori e con i suoi modi recitano virtuosamente. Non si accontenta di un linguaggio classico, si appropria della modernità delle forme di comunicazioni e della psicologia dei personaggi. Un politico di oggi potrebbe avere gli stessi problemi: per poter essere potente deve essere comunicativo, altrimenti è un nulla. Questo pensiero è la modernità del film di Hooper. Infatti, egli svela universalità del suo linguaggio: tutti potrebbero essere al posto di re Giorgio VI. Non è un suo appannaggio avere difficoltà e aver avuto una infanzia difficile. Tutti siamo dei re nel nostro mondo. Tante volte ci spaventiamo, ci impauriamo e per questo fuggiamo. Il nostro difetto è non avere un Lionel vicino a farci apprendere noi stessi. Lionel ci riuscì benissimo. Il re morirà per un tumore ai polmoni dovuto al troppo fumo. Per diventare più sicuro di sé il fumo gli fu suggerito da medici di corte Medici membri della camera dei Lord, dei Sir. Lionel decreterà la loro fine: “Allora è ufficiale” la loro incapacità.

Nel 1936, quando fu incoronato re, Sigmund Freud aveva già svecchiato il mondo accademico medico dell’epoca. La persona era vista in un’ottica diversa. L’uomo era la sua psiche. Il suo essere rispecchia la sua infanzia. Un film minimalista su una storia semplice. Siamo accompagnati, con tensione e partecipazione, nelle profondità umane, nei dubbi delle scelte e della vita. Soprattutto ci troviamo in difficoltà per le decisioni prese da altri. Il nostro destino a volte è già segnato e ci spaventa, eppure dobbiamo rincorrerlo per raggiungerlo. Inseguiamo la nostra paura e anche un re deve cercare di raggiungerla. La rincorre fino ad agguantarla. Nulla cambia; per conservare la sua vita può solo dominare quello strumento perverso e sadico di un microfono, e sarà un amico a dirigerlo come un maestro d’orchestra e potrò così rassicurare un popolo e a vincere una guerra. Roberto Matteucci

 

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