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RECENSIONE FILM INVICTUS

INVICTUSCRITICA a cura di Nicole Braida: Un film sulla figura di Nelson Mandela non è impresa facile e nessuno fino ad ora si era mai azzardato a farlo. Ma si sa, Clint Eastwood è un temerario, il classico sognatore americano.

Attraverso il suo sguardo inconfondibile è realizzato Invictus, tratto dal libro “Playing the Enemy: Nelson Mandela and the Game that Made a Nation”, che racconta dell’elezione di Madiba a presidente della repubblica Sudafricana e del profondo contrasto tra popolazione bianca e nera, divisa dall’apartheid.

Nel narrare questa situazione storica il filtro è inaspettatamente uno sport, il rugby. I mondiali tenutisi nel 1995 in Sudafrica, la cui squadra nazionale degli Springboks entra finalmente nella competizione per il titolo di campione mondiale. Madiba stesso in un abile manovra socio-politica incontra di persona il capitano della squadra (Matt Damon), e gli chiede implicitamente di portare il suo team alla vittoria in onore del proprio paese, e dei sudafricani, tutti.

Il rugby è diciamo il co-protagonista, e da questa prospettiva il regista dà il suo meglio, nelle scene di scontri e placcaggi tra giocatori, moderni abitatori della savana urbana dello stadio, che sbuffano come bufali in carica e si scontrano come leoni in lotta.
Un perfetto film dove domina il classicismo, e la sensazione sognante e gloriosa di cambiare il mondo, in particolare quello dello stato sudafricano, devastato dalle lotte razziali, che improvvisamente puo’ sperare di riunirsi in nome del rugby.

Madiba è interpretato da Morgan Freeman (che è anche produttore esecutivo del film), che ci mostra la sua trasformazione in Mandela attraverso una studiata mimica. Certo la storia di Mandela è un’altra, questo scorcio che ne riporta una sua immagine da un lato da tifoso e dall’altro piuttosto da agiografia, forse è discutibile, tanto da poter risultare antistorica.
Nonostante ciò, come sempre Eastwood è capace di trasmetterci profonde emozioni, di commuoverci e farci sognare.
Nicole Braida
VOTO: 6

 

CRITICA a cura di Olga di Comite: L’ultima creatura di Eastwood non è un film minore ma non ha la folgorante sintesi di "Gran Torino" né il fascino di "Changeling". Il tema che l’autore ormai ottantenne ha davanti è complesso, carico di implicazioni di tutti i tipi. Quindi di fronte all’argomento Sudafrica + Mandela, forse ogni autore dovrebbe fare una scelta di taglio e di ottica. Prima difficoltà questa, superata però con intelligenza, visto che l’alternativa sarebbe stato un polpettone semistorico.

Ad offrire lo spunto giusto un libro, Ama il tuo nemico di John Carlin, cui Eastwood fa riferimento. Siamo nel 1995: è l’inizio della nuova presidenza sudafricana e Mandela sceglie di iniziare il suo processo di riconciliazione di neri e africaneers (discendenti bianchi di coloni anglo-olandesi) servendosi del tifo sportivo, da sempre un collante che funziona per popoli altrimenti divisi. E qui c’è l’occasione d’oro: vincere i mondiali ospitati a Johannesburg. Il compito spetta alla squadra degli Springboks, da sempre odiata dai neri per il suo razzismo. Per raggiungere l’obiettivo di fare del rugby una bandiera politica Mandiba (tale il suo nome nella lingua dei nativi), nonostante la contrarietà del suo popolo, crea un rapporto di forte comunicazione con il capitano della squadra Francois Pienaar (Matt Damon), che spinge a divenire “il capitano della sua anima”.

Con il carisma di cui è fornito, Mandela (Morgan Freeman) riuscirà così ad amalgamare attorno alla sua idea le due componenti umane e sociali del gigantesco paese. Tra gli altri impegni pubblici di ogni tipo, lo vedremo quindi assistere in campo la squadra e indossarne la maglia. Anche gli uomini della sua scorta, metà bianca e metà nera, altra scelta politica sottolineata dal film, saranno coinvolti nel tifo. Invece della Haka (danza propiziatrice Maori dei loro avversari neozelandesi) gli Springboks hanno dalla loro due inni, quello di origine olandese e quello in lingua khosa. Le due formazioni che si misurano in campo occupano quasi tutto il secondo tempo, mentre la scena si sposta da Città del Capo a Johannesburg.

La lunga sfida è la parte tecnicamente più emozionante e riuscita di Invictus. Con la steady cam che si muove con intensità e dinamismo, Eastwood cattura lo sforzo, i rumori e l’ansare del respiro, si sposta sotto il mucchio umano, segue il ritmo dell’azione con una resa quasi fisica che si ritrova spesso nel cinema americano (vedi "Fuga per la vittoria" di Huston). Alla riuscita di questa parte del film collabora anche il montaggio mozzafiato di Joel Cox, tanto che siamo in tribuna anche noi.

Il resto del racconto è costruito con tratti essenziali, fatti di piccole cose rivelatrici di una realtà più ampia che un solo film non può rendere nella sua complessità. La scelta di selezionare i dettagli alla fine è vincente perché Eastwood è maestro al riguardo, ma è mia convinzione che se la partita simbolica avesse preso meno spazio, cedendolo a qualche altro asciutto approfondimento, il film ne avrebbe guadagnato e lo stesso personaggio di Mandela sarebbe apparso un po’ meno santino. Perché se un limite c’è nel discorso è questo eccesso di epicità in cui quasi lo sport la vince sulla politica.

Del resto non è giusto chiedere a un autore di essere ciò che non è e di volere ciò che non vuole. Nel nostro caso quello che il regista ha voluto raccontare vale comunque ed emoziona con la sua semplicità mai superficiale ma scelta come cifra di stile. Per questo Eastwood ha ancora molto da dirci con la generosa rudezza che lo contraddistingue. Freeman è perfetto nella parte, un po’ meno Matt Damon che sfodera spesso espressioni un po’ ottuse senza molte varianti. Olga di Comite
VOTO:

 

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