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RECENSIONE FILM QUANDO SEI NATO NON PUOI PIU' NASCONDERTI

QUANDO SEI NATO NON PUOI PIU' NASCONDERTIANNO: Italia 2005

GENERE: Drammatico

REGIA: Marco Tullio Giordana

CAST: Alessio Boni (Bruno), Michela Cescon (Lucia), Rodolfo Corsato (Popi), Matteo Gadola (Sandro), Ester Hazan (Alina), Vlad Alexandru Toma (Radu), Marcello Prayer (Tore), Giovanni Martorana (Barracano), Andrea Tidona (Padre Celso), Adriana Asti, Lola Peploe (Nigella), Simonetta Solder (Maura), Fuschia Katherine Sumner (Diana), Paolo Bonanni (Carabiniere), Walter Da Pozzo (Guardiacoste), Emmanuel Dabone (Soki), Fall Diop El Hadji Iba Hamet (Ndjaie), Ana Caterina Morariu (Leana), Mohamed Nejib Zoghlami (Mohammed), Sini Ngindu Bindanda (Clochard), Kubiwimania George Valdesturlo (Samuel).

DURATA: 115 '

TRAMA: Sandro (Matteo Gadola) ha dodici anni e una vita spensierata in una piccola cittadina di provincia. Un giorno, durante un viaggio in barca nel Mediterraneo con il padre Bruno (Alessio Boni), cade in acqua e non riescono a raggiungerlo prima che sparisca tra le onde. Viene ripescato da uno scafo su cui sono imbarcati dei clandestini che fanno rotta verso l'Italia, sperando in una vita migliore e nel miraggio di un lavoro per poter mantenere le loro famiglie. Tra gli emigranti ci sono due fratelli rumeni, Radu (Vlad Alexandru Toma) e Alina (Ester Hazan). Hanno la stessa età di Sandro e tra i tre ragazzi si stringe un rapporto che somiglia sempre più ad un'amicizia, nonostante le diversità e la lingua diversa. Sandro si sente vicino a loro, e soprattutto ad Alina, così bella ai suoi occhi di adolescente. E' l'età adulta che irrompe nella sua vita, mostrandogli lo squallore e la crudezza della realtà e costringendolo a guardare il mondo con occhi diversi...

CRITICA a cura di Alice Trippolini: L’ultimo film di Marco Tullio Giordana è, purtroppo, un appuntamento mancato. L’attesa era grande e le premesse, dati gli sceneggiatori e il soggetto, erano sicuramente buone, ma il film, che inizia subito con una scena di disperazione un po’ forzata, si è rivelato troppo attaccato ad una struttura precedente e desideroso di mettere in mostra certe scene piuttosto che una vera storia. Gli interpreti sono coinvolgenti, specialmente Alessio Boni (il padre di Sandro), mentre la pur brava Michela Cescon (la madre) è ostacolata da un personaggio che rimane sullo sfondo e non riesce a definirsi con precisione. La vicenda, tratta da un romanzo, di un bambino che cade in mare durante una gita in barca e viene ripescato da una barca di clandestini diretti in Italia è sicuramente difficile da raccontare senza cadere nel luogo comune, ma in questo caso gli stereotipi iniziano già nella caratterizzazione dei personaggi. Il padre di Sandro, troppo ovviamente proprietario sbruffone di una fabbrica bresciana, pronuncia frasi troppo comuni nell’immaginario collettivo, indice di facile caratterizzazione. La madre è superficiale, buona e generosa con il figlio, ma poco consapevole del contesto intorno a lei, mentre l’amico di famiglia è un avvocato sciupafemmine e senza figli. In mezzo a tutto ciò il bambino appare il personaggio più profondo, pieno di domande e di paure, che guarda con occhio severo i genitori: essi non sono più una fonte di insegnamento, ma semplici compagni di avventura e di gioco. Il film svolta improvvisamente quando, durante la gita, Sandro cade dalla barca: in questo caso il regista ha la capacità di creare tensione facendo perdere le urla del bambino nel silenzio della notte, con il sottofondo leggero delle onde, come un emblema della perdita di tutte le sicurezze, di solitudine. Forse da qui il primo errore nel protrarre troppo tempo la sequenza, alternando il bambino e il padre (inconsapevole a bordo) solo per aumentare una tensione che finisce per calare e togliere forza alla scena. Il rapporto che si viene a creare tra il Sandro e Radu, il ragazzo che lo salva, è forse il vero centro della vicenda: una conoscenza obbligata a cui poi Sandro si apre, fidandosi ciecamente dell’amico e sfidando i genitori per lui, ma che lo deluderà e lo porterà a riflettere, sia sui rapporti che sulle difficoltà concrete della realtà quotidiana, le quali molto spesso rendono le persone diverse da ciò che potrebbero (e vorrebbero, forse) essere. Tuttavia il problema dell’immigrazione è affrontato e descritto in modo banale, il parroco burbero che non si fida di nessuno è una figura scontata, la frase iniziale che dovrebbe rappresentare un filo conduttore non acquista senso nella vicenda stessa e alla fine non si capisce come la ragazzina (altra figura troppo incoerente) sia finita a prostituirsi. La fine è troppo spiazzante, soprattutto se arriva dopo una ricerca surreale, poiché il regista cambia stile diventando freddo e distaccato, allontanandosi dai protagonisti con una ripresa dall’alto e osservandoli da lontano. Come se le emozioni di Sandro non fossero più al centro della scena. Come se fosse impossibile capire e risolvere un problema come l’immigrazione clandestina e lo sfruttamento. Davvero è così? Alice Trippolini
VOTO:

CRITICA a cura di Olga di Comite: Ricco o povero, italiano o immigrato, clandestino o regolare, quando sei nato non puoi più nasconderti; lasciato il sicuro riparo del ventre materno e uscito alla luce, ciascuno di noi comincia da quel momento a essere persona che non potrà sfuggire ai suoi atti, alle sue responsabilità, ai suoi problemi: in una parola alla vita. Mi sembra questa l’essenza del titolo del film, che è anche la traduzione suggestiva del nome di un immigrato africano. Del resto, da quel nome ripetuto come una dolorosa cantilena all’inizio del film, il racconto prende l’avvio. M. Tullio Giordana ha voluto in quest’opera avvicinarsi ancora una volta alla complessità del reale, pur avendo lasciato gli anni ’70 per trasferirsi nell’oggi, nel territorio italiano a lui più vicino per nascita, il bresciano. Ci sono quindi perlomeno due chiavi possibili di lettura: 1, è una storia che sicuramente riguarda l’immigrazione clandestina; 2, è senz’altro un quadro plausibile di una nostra città del Nord, dove l’integrazione è in atto, ma non è compiuta e profonda. Oltre a ciò, la sceneggiatura apre spiragli sul tema della solitudine a qualsiasi etnia si appartenga, sulle scelte delle coppie odierne in Occidente divise tra famiglia, lavoro ed egoismi privati, sui legami familiari, sulle organizzazioni che accolgono chi sbarca di nascosto sulle nostre coste e via discorrendo. Il tutto visto attraverso gli occhi inesperti, ma già consapevoli (proprio come sono quelli di certi ragazzetti tredicenni oggi) di Sandro, impersonato dal giovanissimo attore Matteo Gadola, bravo nel dar vita a questo normale figlio, né troppo né poco viziato. Supportato dai collaudati Rulli e Petraglia, l’autore, salvo qualche sequenza eccessivamente lunga (la ex-fabbrica milanese abitata da clandestini) o sopra le righe (i due trasportatori dei disperati), riesce a dare un quadro asciutto e realistico. Attento ai particolari, senza giudizi o derive ideologiche, animato da un sentimento di profonda comprensione, il racconto ribadisce lo stile dei suddetti sceneggiatori. In quanto al linguaggio, più che in altri suoi film, Giordana si affida ad una fotografia quasi iperrealistica, che insiste su oggetti simbolici, ai primi piani che riempiono lo schermo di elementi naturali (il mare) o costruiti (le architetture di Brescia) mentre spesso le inquadrature dei volti umani si collocano lateralmente. Spesso le dissolvenze sottolineano particolari significati (vedi ultime sequenze), mentre la colonna sonora, adatta ai personaggi e agli ambienti, diviene anch’essa elemento realistico di comunicazione. C’è poi il fattore attesa. Mi spiego. In una filmografia legata alla realtà e alla sua rappresentazione, che non sceglie il genere giallo o noir, ci vuole molto mestiere o una grossa passione civile per creare nello spettatore quel legame che ti tiene attento al susseguirsi degli eventi, perché non si tratta di scoprire un colpevole o di giocare sul colpo di scena. Tu sai già, più o meno, come vanno le cose nel mondo dell’immigrazione clandestina e, se hai la sventura di avere un anziano malato in casa, spesso lo conosci dal di dentro; eppure il racconto e l’evolversi dei personaggi si fa seguire con sotteso un filo ininterrotto di suspence, se così possiamo chiamarla. Il finale, per fortuna aperto e senza drammi, sottolinea bene come l’adulto passi la palla ai ragazzini, quasi si aspetti che da loro possa in futuro venire la risposta vera ai problemi posti dalla multicultura.
La trama della storia è semplice, con pochi fatti ma ricchi d’implicazione. Al centro una normale famiglia bresciana: lui, lei, un figlio. Lui (Alessio Boni) è un piccolo imprenditore venuto dal nulla, buono e un po’ grezzo, che si è circondato di status simbol: la casa con piscina disegnata dall’architetto, la nuova macchina sportiva cui aspira, una moglie che lo aiuta in fabbrica. Lei (Michela Cescon) è una donna dolce e concreta, attenta ai bisogni del marito, lavoratrice professionale senza grossi problemi. I due hanno un figlio, naturalmente unico, il tredicenne Sandro. Come il padre e la madre in fabbrica, egli a scuola è in contatto con coetanei immigrati, che ritrova anche nelle attività extrascolastiche. Fino a questo momento gli stranieri vivono a fianco ai tre, ma sono ombre senza spessore umano, senza specificità, fanno parte del quotidiano, perché quotidianamente li incontrano, dove si gioca, si studia, si lavora. L’ottica cambia quando Sandro in crociera col babbo e un amico su una barca a vela, cade in mare senza che nessuno dei due se ne accorga. Sarà salvato in extremis da un ragazzo rumeno, Radu, che viaggia su un barcone di disperati diretto sulle nostre coste meridionali. Con lui e la sorella Alina, Sandro finirà nel campo di accoglienza e qui vuole restare intanto che aspetta i suoi, conoscendo anche quella realtà che insieme al viaggio terribile sul barcone, cambierà il suo modo di guardare quell’altro mondo. La vicenda del figlio in qualche modo modifica dentro anche i genitori, costretti a prendere atto della disperazione di chi non ha nulla da perdere. Ognuno reagirà a suo modo di fronte alle complicazioni per affiliare Radu e la sorella, ma soprattutto Sandro sarà coinvolto a fondo nel rapporto con i nuovi difficili amici. Per lui che, salvato dall’annegamento, è come rinato una seconda volta, non c’è più neanche l’alibi della ricchezza a tenerlo lontano dalle realtà più complesse: ora proprio non può in alcun modo nascondersi. Olga di Comite
VOTO:

 

SPIGOLATURE

Il primo finale del film si concludeva con una lite quasi amichevole tra Radu e Sandro e poi con la morte drammatica del ragazzo rumeno per mano della sorella; avrebbe così avuto un’alta intensità emotiva (o forse melodrammatica?) e sarebbe rimasto come una ferita incancellabile nella vita dei due adolescenti. Invece Giordana, con felice intuizione, lo ha cambiato, perché ha voluto affidare alla lunga immagine sfocata dei due ragazzini, svuotati e dolenti ma seduti uno accanto all’altro, una speranza, un primo passo verso qualcosa di diverso. Spiega il regista: << Nel film non ci sono buoni e cattivi, ognuno ha le sue zone d’ombra... Il piccolo Sandro per me rappresenta il futuro... Che paradosso! Abbiamo esportato sessanta milioni di italiani in tutto il mondo... pensavamo di essere quelli buoni, i migliori, e invece i clandestini che sbarcano sono il nostro specchio oscuro e siamo sorpresi di scoprirci razzisti... >> (da Ciak, 5/05). Quanto alla scelta di un eroe in età puberale, Giordana la spiega così: << Volevo un punto di vista senza ideologia, senza pregiudizi. C’è il fatto che questi disperati, prima che stranieri, sono poveri, e questo lo vediamo con gli occhi di Sandro >> (La Repubblica 5/5/05). E infine ancora una riflessione: << L'importante è non semplificare mai le cose, che sono sempre più complicate, ma si capiscono solo così... Brescia, la prima città multietnica, è insieme generosa, ottusa, energica, piccina, gretta, sensibile, volgare, solidale >> (Corriere della Sera, 6/5/05).

 

INVITO

Invito a rivedere in video cassetta, dello stesso autore:"Pasolini, un delitto italiano", 1995, tornato di attualità ora che si riparla di nuovi processi e di nuovi colpevoli; "I Centro passi", 2000, perché è un film commovente, vero e perché parla di mafia, che non è mai abbastanza.
Invito a rivedere "Lamerica" di Gianni Amelio, 1994, su tematiche simili alle ultime di Giordana.
Invito a rivedere "Germania anno zero", di Roberto Rossellini, 1947, perché le sequenze sulla fabbrica milanese dimessa sono un omaggio a quest’opera.
Invito alla lettura di "Quando sei nato non puoi più nasconderti", di Maria Pace Ottieri, un reportage narrativo al seguito dei clandestini e non un romazo.
Invito a una visita alla città di Brescia, alle sue architetture e alla sua gente.

 

PROVOCAZIONI

1. Diffidiamo degli stranieri solo perché diversi o anche perché poveri e bisognosi?

2. I bimbi di ogni razza e colore a scuola fanno folklore, ma ci siamo mai chiesti chi sono davvero e cosa hanno dietro?

3. Ipotesi fantascientifica: dopo la caduta dell’Occidente, diventeremo badanti presso le ricche famiglie cinesi?

 

a cura di Olga di Comite

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