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RECENSIONE FILM THE TREE OF LIFE

THE TREE OF LIFECRITICA a cura di Olga di Comite: Mi sento un po’ a disagio nello scrivere del film di T. Malick, Palma d’oro a Cannes pochi giorni fa, incubato per molto tempo, frutto di note scritte e riprese negli ultimi 35 anni, creazione tipo coperta a patchwork, contenuti secretati, fino al battesimo ricco di osanna critici, quasi del tutto concordi nel gridare al capolavoro.

Il disagio nasce dal fatto che a me, semplice spettatrice, l’operazione di Malick, salvo alcune caratteristiche senz’altro particolari nel linguaggio e nella tessitura dei contenuti, non è piaciuta poiché ho trovato quest’opera presuntuosa, ingenua, scucita, fortemente condizionata dall’assunto filosofico.

Al centro del film infatti la storia di una famiglia americana anni ’50, Texas, che assurge a paradigma universale nel rapporto tra Dio e l’Uomo, tra la Natura e la Grazia, la Vita e la Morte. Il racconto include poi la descrizione della Creazione e la storia del pianeta, dal Big Bang alla futura estinzione, la difficile dialettica tra la Natura soverchiante e violenta e il lento lavorio della Pietas umana che cerca di conciliare nella nostra esistenza il Bene e il Male.

Gli effetti più o meno speciali, a volte molto belli quando cercano di rappresentare da vicino l’oggetto che quasi tocchi con mano nella sua essenza tattile, altre volte risultano banali, quasi da cortometraggio divulgativo (vedi dinosauri). La storia cosmica viene rappresentata servendosi di varie categorie: immagini ottenute da telescopi e sonde spaziali, processi derivati dall’osservazione al microscopio, altri effetti ancora ispirati alla storia naturale. A tutto ciò è affidato il compito di descrivere, tra il visionario e lo scientifico, come si arriva alla nascita e al pullulare della vita ai vari livelli ed è su questo sfondo che si sviluppa la storia della piccola famiglia di riferimento.

La prima metà del film è quasi tutta dedicata al cosmo, senza dialoghi, con sottolineature musicali forti, perlopiù efficaci. Qua e là salti temporali e contenutistici introducono flash sulla famiglia di Jack (padre madre e due suoi fratelli), su Jack divenuto un uomo che cerca in una città di grattacieli di vetro e di uffici supertecnologici, un senso alla sua vita passata presente e futura. Il montaggio, che è uno degli aspetti molto personali della regia di Malick, è emotivo, spezzato, con nessi non sempre funzionanti o facili da cogliere ma questo sembra poco importante, perché lo spettatore sta lì quasi narcotizzato da questa orgia di immagini selezionate da metri e metri di pellicola con l’uso di tutte le tecniche che il regista controlla da smaliziato artigiano. Personalissimo è anche l’uso della luce naturale, i colori smorzati o chiarissimi, i volti frugati senza l’aiuto di lampade messe al posto giusto e quindi esposti in tutta la loro impurità e fisicità.

Tra lampi di buon cinema, il resto del racconto (seconda parte) scorre come una specie di Amarcord americano, fortemente segnato dalla religiosità protestante, da temi teologici, che affiorano nello scarno dialogo tra l’uomo e il Dio della Bibbia e che ricalcano domande scontatissime, quelle che qualsiasi adolescente si pone e risolve poi a suo modo nella crescita. Come può Dio volere il Male e la Morte? Perché sparge sale nelle ferite invece di sanarle? E via di questo passo. La storia quotidiana della famiglia O'Brien ha una specificità da contesto che non va sottovalutata ma ha anche i caratteri dell’esistenza in generale a qualsiasi latitudine. Si nasce, si cresce, si soffre, si gioisce, si muore. Alcuni tratti poetici fanno tenerezza; altri già visti e abusati per cui sottrarli a una sostanziale monotonia risulta difficile anche a una personalità come Malick.

Attraverso la crescita del protagonista bambino si arriva alla “illuminazione” finale e qui sta, a mio parere, il peggio del film, cioè il tentativo di rappresentare l’Aldilà all’americana, con una presunzione e una ingenuità maldestre che rendono questa passeggiata onirica quasi risibile. In un tripudio di suoni da chiesa, Jack ritrova tutti i familiari, capisce (finalmente!) che solo la famiglia garantisce amore disinteressato (?) e ramificazioni che permettono alla vita di continuare in attesa della passeggiata, pardon dell’abbraccio finale.

Ancora una volta, come in Hereafter ultima opera di Eastwood, non si sfugge alla tentazione di rappresentare in immagini ciò che solo a stento la parola riesce a suggerire. E io non trovo che a un regista famoso vada tutto perdonato, né dimentico che per creare questo piatto dai molti sapori mal mescolati, Malick ha avuto a disposizione cifre che altri autori possono solo sognare (si parla di 150 milioni di dollari). Tra gli attori mi sembrano degni di nota quelli che impersonano i tre figli; gli interpreti adulti risultano invece monocordi, sovrastati dalle immagini, imbrigliati in personaggi scarsamente sfaccettati in un ruolo emblematico ma poco flessibile e credibile. Olga di Comite
VOTO:

 

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