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RECENSIONE FILM CENTOCHIODI

CENTOCHIODIANNO: Italia 2007

GENERE: Drammatico

REGIA: Ermanno Olmi

CAST: Raz Degan, Luna Bendandi, Amina Syed, Michele Zattara, Damiano Scaini, Franco Andreani.

DURATA: 92 '

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TRAMA: Un giovane professore universitario di Bologna ha deciso di cambiare radicalmente il suo cammino esistenziale, passando dalla cura maniacale per il libri ad uno sguardo più attento alle persone, per stringere legami d’amicizia con loro.
Così, dopo aver trafitto con cento chiodi importanti manoscritti al pavimento della biblioteca dell’Ateneo, parte alla volta della campagna.
Trova una baracca in un pendio che scende sulla riva del fiume Po e decide di farne la sua casa.
In quell’ambiente comincerà a conoscere le bellezze naturali e soprattutto l’intenso calore umano che sa trasmettere la sua gente.
A poco poco familiarizza con un postino, quindi con una piccola fornaia che se ne innamora, persone semplici che lo aiuteranno a mettere in sesto il piccolo casotto in cui ha deciso di dimorare, dal sapore molto antico, costruendo un riparo più sicuro ed una graziosa finestrella per osservare all’esterno il fluire del fiume.
La cortesia e disponibilità degli abitanti del luogo sarà ricambiata, da parte sua, con il pagamento di un lauto tributo finanziario al comune, per ottenere la concessione demaniale delle terre, impedendo così un’ inevitabile e straziante estradizione per un insediamento abusivo.
Sul protagonista incombe, però, lo spettro della giustizia, che lo condanna agli arresti domiciliari. Da quel momento i suoi amici non lo rivedranno più...

CRITICA a cura di Lorenzo Carrega: Un libro è un modo per far rivivere le esperienze di altri dentro noi stessi. D’accordo è un amico fidato che solo tu puoi tradire, ma certo non parla da solo e tanto meno sa darti conforto nelle situazioni più difficili.
Non possiede quelle meravigliose doti umane che corrispondono ai sentimenti, manifestati anche solo con una piccola e calorosa carezza o uno sguardo profondo. Non riesce a dare un volto alla parte più nobile dell’animo umano, ma la maschera dietro l’ausilio di vari personaggi, limitati nel loro agire dagli strumenti della parola, efficace congegno descrittivo, ma non altrettanto espressivo.
Così meglio uscire dal rifugio effimero e fragile dei fogli di carta, liberare le proprie passioni e la propria naturale tendenza a districare trame relazionali.
Troppo tempo si è chiesto se vale la pena trascorrere l’esistenza circondato dal sapere universale, da notevoli conoscenze culturali, incastonato nella complessa materia religiosa.
Ora si è dato una risposta, trovandola nel mondo di fuori, tra il respiro dei fiori primaverili e il calore umano della gente.
Conoscere nuove persone, stringere amicizie importanti con loro, rappresenta il momento pregnante della vita, un estasi completa dei sensi, che nessun volume può appagare.
Il sapere è potere, la volontà di fare cose pregevoli nella propria esistenza comporta spesso un mancato rispetto per le sue regole, denigrando il suo aspetto più autentico e sublime.
Ci lascia un messaggio utile, un invito a non fare come lui, a pensare da uomo per l’uomo, perché è lì che si trovano i valori più forti, che si può assaporare il succo della nostra presenza sulla terra.
Raz Degan spicca nella recitazione, aiutato dalla notevole personalità della figura interpretata, un ruolo a lui calzante per il suo aspetto mistico/introspettivo, che rende più evidente la complessità del filosofo dotto.
Aspetto dolente è il ritratto di una campagna troppo legata alla tradizione, imprigionata in un’innocenza che sfiora l’irrealtà. Il tutto provocatoriamente inserito dal regista per giustificare un concetto puerile di amicizia, contrapposto alla tediosa esperienza della solitudine, sfondo di un palcoscenico fatto di carta. Lorenzo Carrega - Yanub (LINK)
VOTO:
9

GIUDIZIO: Un’esperienza che penetra nelle viscere dell’animo umano per educere gli aspetti più succosi di esso. Coraggiosamente, vuole aprire gli occhi della gente sui valori autentici, sulla riscoperta della semplicità, ironizzando sul sapere come strumento di vita e accusandolo di una finta produzione della vera conoscenza. La perizia concreta, vissuta ogni giorno, tra un saluto ed un gesto affettuoso portano alla scoperta della realtà.

CRITICA a cura di Olga di Comite: Ermanno Olmi ha dichiarato che questo sarà il suo ultimo film narrativo. D’ora in poi si dedicherà ai documentari dai quali era partito. Dispiace sentirlo, anche se sono sicura che il saper cambiare (genere o via) è proprio di un grande maestro che sa quando deve di nuovo sperimentare per non ripetersi, così come un grande pittore sa quando deve dare l’ultima pennellata.
Per questo motivo Centochiodi, da ultima creatura, è un concentrato di tutto il modo di pensare tipico di questo regista-poeta, risolto in una sintesi più che matura, quasi sapienziale, senza l’ombra della pesantezza o della pedanteria.
E’ un’opera stupenda, di quella bellezza malinconica che hanno i testamenti spirituali, intessuta di immagini pittoriche e suggestive, di atmosfere rarefatte costruite con niente, di una quotidianità non banale, spesso un po’ magica.
Questo film dimostra ancora una volta come il cinema sia un’arte di gruppo; se tutto il cast è diretto da un grande, esso può rivelare a pieno le proprie potenzialità.
Risultato: fotografia attenta alle vibrazioni della natura, dialoghi semplici ed essenziali, come il Vangelo (spesso parafrasato), sceneggiatura quasi da thriller all’inizio e poi di buon ritmo, con pochi fatti, ma tutti nel giusto rilievo, musiche tra il nostalgico popolare e il classico, scelte con cura.
Ma quello di Olmi è anche un discorso di rigore e purezza, sotteso da una vena polemica raddolcita e schietta, legata ai valori tradizionali, come l’autore, e diretta contro tutte le manipolazioni di tipo dottrinario. Ciò vale soprattutto per ogni fede, che può essere colta nella sua essenza solo se la si pratica ogni giorno della vita, in ogni atteggiamento, in ogni gesto d’attenzione e comprensione del prossimo.
In questo caso è possibile davvero imbattersi in un angelo o in un Cristo sotto mentite spoglie, che ci dà e chiede amicizia, che comunica serenità, che ama la natura, che sceglie l’amore e non la violenza. Questo rappresenta il giovane professore che inchioda i libri rari di un’antica biblioteca e poi fugge lungo gli argini del Po, scegliendo, dopo essersi privato di quasi tutto, come domicilio, una casupola diroccata.
In mezzo a una natura che sembra intatta, ma non lo è più, presso la grande via d’acqua che scorre, vive una ristretta comunità di gente semplice, che non ha saputo e voluto abbandonare quelle rive. Queste umanità così diverse si incontrano, si intendono, si raccontano ognuna a suo modo, mentre il professore sempre più allude con i propri discorsi e spiegazioni alla figura di Cristo. Finché una ruspa, che vuole sfrattare gli abitanti superstiti accampati in capanne e roulotte, e un maresciallo dei carabinieri che identifica il professore ricercato, non rompono l’incantesimo dell’utopia quasi compiuta. L’insegnante, confessato il suo crimine culturale, andrà in carcere, pur restando convinto che “le religioni non hanno mai salvato il mondo” e che “nel giorno del giudizio sarà Dio a dover rendere conto della sofferenza degli uomini.
Dopo la scarcerazione, gli amici del fiume ne attenderanno invano il ritorno. Cosa voglia dire il regista con questa attesa delusa può essere di duplice interpretazione. Il Cristo stesso rifiuta di tornare in un mondo divenuto così brutto e lontano da lui oppure è l’inesorabile scomparsa dell’utopia che cede alla realtà?
Ognuno sceglierà la sua soluzione o ne immaginerà altre.
Ermanno Olmi ha fatto la sua parte, invitandoci a guardarsi dentro, regalandoci immagini di un nitore alla Bresson, con un occhio ai Cenacoli o alle Predicazioni nel tempio della nostra pittura, ha fatto di un divo belloccio della tv un personaggio commovente, si è rimesso in gioco come credente. Cosa possiamo chiedergli d’altro?
Olga di Comite
VOTO:

 
 

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