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RECENSIONE FILM FAHRENHEIT 9/11

FAHRENHEIT 9/11ANNO: U.S.A. 2004

GENERE: Documentario / Film politicamente schierato

REGIA: Michael Moore

CAST: Michael Moore, Il Presidente degli Stati Uniti d'America George W. Bush (sequenze registrate), Lila Lipscomb.

DURATA: 112 '

TRAMA: Michael Moore si mette al servizio di una nuova e coraggiosa inchiesta sulle pieghe nascoste della politica estera del Presidente degli Stati Uniti d'America George W. Bush indagando sui presunti legami economici tra la famiglia Bush e Osama Bin Laden, sull'America post-11 settembre, la presunta strumentalizzazione dell'attentato a scopi politici e la successiva, sanguinosa, interminabile guerra portata in Iraq con le sue drammatiche conseguenze...

CRITICA a cura di Olga di Comite: Vorrà pur dire qualcosa un applauso di venti minuti a Cannes e il ritorno dello stesso applauso nelle nostre sale dopo anni e anni senza battimani finali. Uno dei molti significati di tale reazione sta, a mio parere, nella voglia di verità che tutti proviamo, sempre più incerti nella comprensione e decodificazione di una realtà complessa, ambigua, manipolabile al di sopra delle nostre teste. E se qualche limite il film di Moore ce l'ha, è d'altronde innegabile che esso ci coinvolge nella rappresentazione di drammatici pezzi di realtà. Questi riguardano il potere e ne fotografano la secolare spregiudicatezza, quando non l'ottusità o l'involontaria comicità. Da questo punto di vista Fahrenheit 9/11 è uno spettacolo da non perdere. Del resto, al di là dei contenuti volutamente e sfacciatamente di parte (vivaddio!), l'opera del regista, tecnicamente parlando, è da manuale. Ritmo sicuro, montaggio efficacissimo, alternanza di chiavi diverse, effetti espressivi di grande impatto, come le inquadrature che riguardano l'attentato alle torri. L'evento è risolto con lo schermo buio da cui arrivano solo i rumori della tragedia, seguono alcuni volti fissati negli istanti successivi all'esplosione, che cristallizzano dolore, stupore e rabbia, infine la scena si riempie di frammenti di carta, pagine strappate che svolazzano nel fumo grigio, quasi a simboleggiare lo svanire dei dati del potere racchiuso e gestito nelle Due Torri. Da maestro anche le interviste: nè troppo lunghe nè troppo sintetiche, giuste nel taglio e nella scelta dei testimoni. Ogni tanto, e un po' meno del solito, eccolo lì anche lui, Michael Moore, con la mole straripante, lo sguardo furbo e il berrettino rosso a visiera. La sua comparsa ci ricorda che l'autore è un americano, parte di quella metà che non ama nè Bush nè la sua politica, ma pur sempre un americano che si batte con il mezzo a lui più noto per modificare una realtà nella quale non si identifica. Così il film è diventato un vero e proprio contributo, teso a chiedere ai suoi concittadini di non rieleggere il texano dagli occhi sfuggenti, vacui, affarista di basso rango, circondato da un entourage che peggio non si può. Basta fissarne i volti, come fa Moore, o i gesti ridicoli, segnali della loro pochezza: vedi Wolfowitz che si pettina i capelli con la saliva o Condoleezza Rice al trucco prima di un'intervista importante. Partita come un'analisi dei rapporti di affari tra il clan Bush e quello saudita dei Bin Laden, la materia si è poi modificata nelle mani dell'autore dopo le vicende della Guerra in Iraq. Perciò nella seconda parte l'opera si fa atto d'accusa contro la guerra e presenta momenti di banalizzazione sul piano espressivo, ma << I mezzi giustificano il fine >>, come ha ben detto Tullio Kezich dalle colonne del Corriere della Sera. Per andare diretto al cuore degli americani, Moore squaderna l'orrore di qualsiasi conflitto. Le madri private dei figli, i soldati prima baldanzosi che diventano ragazzini spaventati nel dover uccidere inermi e bambini, i morti di cui non si conoscono le esatte cifre, opportunamente celate alla nazione, si sostituiscono alla sferzante lucidità della prima parte, diventando un sanguigno e spesso moralistico incitamento a cambiare. Belle al riguardo le immagini delle interviste ai senatori, che non mandano certo i propri figli a combattere, o quelle finali della madre che s'aggira come una belva ferita fuori dalla Casa Bianca, sorvegliatissima, ostile e lontana. C'è poi anche l'invito a non svendere la libertà individuale per la sicurezza politica, giacché la paura è il mezzo più subdolo e universale per soggiogare la massa alla gestione indisturbata del potere. Qualcuno ha scritto che il film avrebbe dovuto spiegare meglio la filosofia in base alla quale si muove l'America di Bush, ma Moore non è un filosofo: è un geniale uomo di cinema, provocatore convincente e al tempo stesso non predicatorio. E' giusto quindi ringraziarlo per il coraggio che dimostra nel prendere posizione, utilizzando il pamphlet, lo spot politico, il documento e ogni altra cosa che, lontana dall'inganno della fiction, ricordi a tutti noi che nessuno è innocente, ma che qualcuno è più colpevole di altri. Olga di Comite
VOTO:

CRITICA a cura di Livio Marciano: Fahrenheit 9/11 è la nuova inchiesta-spettacolo di Michael Moore. Il titolo riecheggia il bellissimo romanzo di Ray Bradbury, già portato sul grande schermo da Truffaut. Questo nuovo Fahrenheit non c'entra nulla con i precedenti, se non nel condividere preoccupazione nell'immaginare un futuro prossimo da incubo. Il lavoro di Moore si prefigge di fare contro-informazione, denunciando i loschi traffici di Bush (George Sr. nell'ombra e George W. Jr. alla luce del sole) e del suo staff per difendere i propri interessi personali anziché quelli dei cittadini da cui (non) ha ricevuto mandato presidenziale. Il punto di partenza è la contestata elezione con cui, per una manciata di discutibili voti, Al Gore fu sconfitto da Bush. Conseguenza pressoché immediata di questa "sciagurata" elezione fu l'attentato al World Trade Center. Con Fahrenheit 9/11 il regista protrae le sue indagini e le sue battaglie a favore della libertà d'informazione e d'inchiesta: cerca di mostrare al pubblico le motivazioni e le dinamiche che hanno portato all'immensa catastrofe dell'11 settembre, di scoprire nuovi dettagli su Enduring Freedom, l'operazione militare americana nata per la lotta al terrorismo dopo la suddetta tragedia. Protagonisti della vicenda sono coloro che detengono attualmente il potere in America: il Presidente George W. Bush e tutti i collaboratori che lavorano al mantenimento di questo potere: il suo vice Dick Cheney, il ministro della difesa Donald Rumsfeld, il segretario di Stato Colin Powell, il consigliere alla sicurezza Condoleeza Rice. La Presidenza di Bush viene descritta come un crescendo di giochi di potere che portano all'attuale politica del terrore, costruita a tavolino per giustificare guerre contro regimi dittatoriali lontani, rei di detenere il controllo del bene più prezioso del mondo: il petrolio. Moore cerca di dimostrare, basandosi sui fatti concreti, che tutto ciò che il governo decide per il proprio popolo ha il solo scopo di favorire e accrescere il potere di quella strettissima cerchia di uomini che proteggono Bush, patinato da un falso interesse per i più deboli e gli emarginati. Il regista sofferma gran parte della sua attenzione sulla Guerra in Iraq: cerca testimonianze coinvolgendo uomini e donne provenienti da diversi strati sociali e dalle diverse opinioni. Michael Moore ha uno stile quasi cabarettistico-spettacolare nel proporsi al pubblico ed è per questo che i suoi lavori ottengono una così vasta popolarità. Tuttavia gli va riconosciuto il merito di basare le sue condivisibili tesi su una scrupolosa raccolta di prove, testimonianze, dati, cifre, interviste. L'apparente bonomia da "pacioccone" corpulento non deve ingannare: egli è uno scaltro conoscitore dei meccanismi spettacolari. Moore, pur di ottenere il consenso del pubblico, sa utilizzare e dosare con maestria i più svariati registri retorici. Il divertimento: disegna Bush e i suoi alleati come la saga di personaggi tratti dai telefilm di "Bonanza"; l'orrore: mostra l'11 settembre nella maniera più cruda e atterrita di chi, testimone oculare della vicenda, non poteva fare altro che guardare; l'indignazione: documenta l'infamità della classe dirigente nel reclutare le forze per combattere dalle classi sociali più disagiate, ai margini del sistema; il cinismo e l'ignoranza: agghiaccia con le dichiarazioni dei giovani e spavaldi soldati, carichi di adrenalina per gli imminenti scontri a fuoco; l'ambiguità del popolo americano: segue il cammino della madre di un soldato al fronte, dapprima acritica nei confronti della guerra e, immediatamente dopo, distrutta dal dolore per l'inutile morte del figlio. Il regista canadese affronta molteplici argomenti, apre tante parentesi, procede con una narrazione sempre più articolata e non sempre lineare, per cui il risultato appare, nel complesso, meno efficace rispetto al precedente "Bowling a Columbine", che aveva il grande pregio di coniugare forma e sostanza. Moore costruisce il suo film principalmente su materiale di repertorio: interviste, incontri, spezzoni tratti da servizi giornalistici o da programmi televisivi di attualità. Il montaggio, in questo caso, è più una sorta di puzzle, di collage, in cui il lavoro del regista consiste nel prendere il materiale, archiviarlo, ordinarlo cronologicamente e logicamente e nell'unire le parti aggiungendo materiale da lui creato per dare una finalità logica al tutto, attraverso voci over, nuove interviste, riprese, spesso quasi amatoriali. Grande merito di Moore è il saper bilanciare le parti serie e drammatiche, con altrettanti momenti di distensione ironica e sarcastica di cui è egli stesso protagonista in prima persona. Fahrenheit 9/11 ha l'indubbio merito di costituire un'importante voce di dissenso nei confronti di un'amministrazione che bada esclusivamente all'interesse dei pochi, non esitando a sacrificare milioni di vite umane sull'altare del denaro e del potere. Una drammatica situazione che dovrebbe far riflettere non solo gli americani ma l'intero mondo, in particolare molti alleati della "grande" America (<< isn't it Mr. Blair, Mr. Berlusconi? >>). Premesso che si riconosce una valenza fortemente informativa e positiva alla pellicola, è necessario segnalarne le debolezze dal punto di vista schiettamente formale e ideologico. Innanzitutto non si tratta di un documentario. Il film documentario deve seguire delle regole grammaticali ben precise, rispettando valori formali che questo Fahrenheit 9/11 non ha. Semmai possiamo definirlo una buona inchiesta in stile televisivo. Televisivo è il taglio delle immagini; cabarettistico-spettacolare è anche il tono e lo stile del conduttore, se dovessimo trovare un paragone a noi vicino potremmo definire l'operazione a metà strada tra le inchieste di "Report" e l'ironia populista e a buon mercato de "Le Iene". La debolezza ideologica è di partire da un punto di vista già dichiaratamente di parte, che tende a modellare il materiale a disposizione sulle proprie convinzioni, molto giocato su una contrapposizione ad effetto che, alla lunga, perde profondità. Inoltre abbastanza discutibile è la scelta di mostrare il Presidente americano come una macchietta da cabaret, ridicolo e sempre con la battuta pronta, cosa peraltro dolorosamente vicina alla realtà ma, come accade al Premier italiano nelle varie trasmissioni "satiriche" (cfr. "Striscia la notizia"), può provocare un effetto boomerang sul pubblico inducendolo a sottovalutarne l'effettiva, quanto drammatica, pericolosità. Livio Marciano
VOTO:

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