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RECENSIONE FILM LA VIDA SECRETA DE LAS PALABRAS - LA VITA SEGRETA DELLE PAROLE

LA VIDA SECRETA DE LAS PALABRASANNO: Spagna 2005

GENERE: Drammatico

REGIA: Isabel Coixet

CAST: Tim Robbins, Sarah Polley, Javier Càmara, Eddie Marsan, Steven Mackintosh, Julie Christie, Danny Cunningham, Daniel Mays, Emmanuel Idowu, Anker Ousdal, Dean Lennox Kelly, Reg Wilson, Leonor Watling.

DURATA: 112 '

TRAMA: Hanna (Sarah Polley) è una donna timida e riservata, con un'esistenza abbastanza piatta, scandita da un lavoro in fabbrica sempre uguale, e con una vita privata che non le regala mai emozioni. Durante le vacanze in un piccolo paese, per spezzare la monotonia, va in visita alcuni giorni in una piattaforma, dove si prende cura di Joseph (Tim Robbins), un uomo che ha numerose e gravi ustioni sul corpo. Durante il suo soggiorno incontra un campionario di persone strane ed interessanti...

CRITICA a cura di Gabriela Saraullo: La Vita segreta delle parole è la discesa all’inferno di due persone disperate, un uomo temporaneamente cieco per colpa di un incidente, logorato dai sensi di colpa e una donna, vittima della guerra nei Balcani, che ha sofferto tutto quello che una persona può patire in una sola vita. Queste due persone legano le loro anime, le loro sofferenze, le loro vite desolate in un “non luogo” come è quello di una piattaforma petrolifera nel mare del nord. Tra di loro crescerà una strana intimità, un vincolo del quale non usciranno indenni e cambierà le loro vite per sempre.
La regista Isabel Coixet ci presenta un film denso di parole che hanno una vita segreta, di quelle in cui la simbologia va oltre il semplice significato che abbiamo in un vocabolario. Parole quasi mai dette, che ci fanno soffrire, chiuse nei ricordi; si avvicinano a chi ha bisogno di sentirle, a chi ha necessità di dirle per raggiungere liberazione e salvezza. Comincia così la parità dialettica che provocherà la simbiosi fondamentale tra i due protagonisti; incroci di parole, stati d’animo, dolori, passioni e segreti inconfessabili; parole che molte volte non meritano di essere nominate ma narrate.
Le parole sulla piattaforma hanno un senso magico e miracoloso, perché è un posto dove è impossibile assentarsi per troppo tempo ma allo stesso tempo è il luogo perfetto per essere lasciati in pace. Ogni persona ha uno spazio limitato ma gode della propria solitudine della libertà della propria esistenza; essere re in un piccolo regno colpito da milioni di onde ogni giorno. In questa solitudine coabitano persone solitarie che si cercano, si amano, cucinano, alimentano le speranze e ascoltano il silenzio.
Nonostante tutto ci sono cose che le parole non possono descrivere, come il tatto delle cicatrici che rigano il petto di Hanna come una mappa, in quel luogo esatto dove da sempre è ubicato il sentimento dell’amore, dell’immenso e del desiderio. Joseph (un eccellente Tim Robbins) la sostiene in ognuna delle sue confessioni mentre Hannah si libera del suo mutismo. La Vita segreta delle parole parla di come sopravvivere al passato, come superarlo e come condividerlo con il presente. Troviamo, inoltre, l’eterno conflitto tra cinismo e idealismo, tra speranza e realtà. Il paesaggio rafforza questa idea: il fumo, le fabbriche, la pioggia, il vento, e milioni di onde che si scagliano contro le colonne che sostengono la piattaforma. Ma c’è anche una storia di pace, guerra ed ecologia, contro la tortura umana e le sue conseguenze.
Il personaggio di Hanna è un simbolo di tutte le vittime che provano vergogna di sopravvivere ad atrocità commesse nei conflitti bellici come la ex - Yugoslavia.
Non mancano i riferimenti ecologisti: la presenza dell’oceanografo che misura le onde è la voce che critica gli abusi commessi dall’uomo contro la natura. Non possiamo neanche tralasciare il cuoco Simòn, che combatte la noia creando cene a tema per gli abitanti della piattaforma accompagnata da musica del paese da dove proviene la ricetta; ma ci sono anche altri personaggi e ognuno di loro dà la propria forza in una storia di onde.
Un film sul peso del passato, sul silenzio dinanzi alle tormente, su venticinque milioni di onde, sul potere dell’amore malgrado le più terribili circostanze. Gabriela Saraullo
VOTO:

CRITICA a cura di Olga di Comite: L’elemento che colpisce subito, a proposito di quest’autrice catalana, è la pregnanza lirico-metafisica dei titoli dei suoi lavori, caratteristica anch’essa del suo maestro e produttore Pedro Almodovar. Nel primo caso, "La mia vita senza me", un tema maiuscolo: la Morte. Una giovane donna condannata a morire da un male incurabile, con leggerezza e solidarietà si proietta sul futuro delle persone che ama, cercando di lasciare in esse una impronta concreta, in modo che la “sua” vita continui senza di lei.
In questa seconda opera, protagonisti sono il dolore e le parole che hanno una vita dentro di noi, ma a volte non riescono a trovare una via d’uscita, a creare comunicazione e perciò restano raggelate, compresse, si traducono in gesti rituali e spesso nevrotici.
La protagonista vive separata dal mondo e dagli affetti. Un terribile passato l’ha segnata e la sua sordità è il “risultato fisico” dello straniamento umano in cui si svolge un’esistenza metodica e vuota. Ad un certo momento la donna è costretta dal suo principale a prendersi le ferie, mai fruite in quattro anni di squallido lavoro in fabbrica e di brevi pasti freddi e mal cucinati alla mensa aziendale. Invece delle vacanze, Hanna (Sarah Polley) sceglie di andare su una piattaforma petrolifera nell’Irlanda del Nord, dove, fingendosi infermiera, ha il compito di curare Joseph (Tim Robbins), un tecnico rimasto ustionato in un incidente e, temporaneamente, cieco. Al contrario della giovane, lui reagisce al dolore e ai segreti affettivi con l’autoironia, con la dolcezza umana, con battute umoristiche che coprono la disperazione. Si crea così, in quel microcosmo sospeso e fuori del reale, dove gli addetti coltivano tic, memorie e solitudini, al cospetto possente del mare, un’atmosfera di complicità tra i due, che alla fine scioglie il muro di lei. Un fiume di parole trattenute faranno sfuggire dalle sue labbra la storia di una violenza inaudita che le ha cambiato la vita. Senza nulla togliere al dramma delle proprie esistenze, il rapporto di Hanna e Joseph crea una via di salvezza. Nell’affetto che li lega i due ritrovano la capacità di rinnovarsi. La tenerezza si mescola alla brutalità del reale in quel complicato groviglio che, dopo tanto silenzio, tocca alle parole di sciogliere. Con qualche sospensione quasi gialla per l’ambiente e il vissuto dei protagonisti, il racconto si presenta con caratteristiche autoriali, con pause insistite, silenzi significativi, dialoghi scarni, fotografia e inquadrature a volte volutamente sfocate e di grana sporca. Questa qualità introspettiva ne è però anche il limite, perché i vezzi registici introducono momenti di monotonia e cerebralismi che non c’erano nella prima prova della Coixet, condotta con naturalezza, nonostante l’argomento.
Buona la prova degli attori, in particolare quella di Tim Robbins, che dà vita a un personaggio giustamente in bilico tra ironia e dramma, e quella di Javier Càmara nei panni del cuoco spagnolo che per mezzo dei suoi pasti, raffinati e a tema, contribuisce a riconciliare la protagonista, pur di un minimo, con il piacere. In un ruolo secondario abbiamo avuto la gradita sorpresa di rivedere Julie Christie, ancora intensa nonostante le rughe. A lei l’onore e l’onere di interpretare la fondatrice dell’IRCI, associazione internazionale per il recupero psicologico delle vittime della tortura, pensando alla quale è difficile lasciare la sala senza un sentimento di profonda tristezza e cupezza, nonostante la nota positiva che conclude la storia. Olga di Comite
VOTO:

   
 
 
   
 

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