ANNO:
U.S.A. 2002
GENERE:
Drammatico
REGIA:
Nicole Garcia
CAST:
Daniel Auteuil, Géraldine Pailhas,
Emmanuelle Devos, François Cluzet.
DURATA:
120 '
TRAMA:
Tratto dal romanzo "L'Avversario" di Emmanuel
Carrère, la vera storia di Jean-Claude Romand,
l'uomo che il 9 gennaio 1993 uccide la moglie, i figli
e i genitori prima di tentare, senza successo, di suicidarsi.
L'inchiesta che segue porta alla luce una verità
sconcertante: Romand (Daniel Auteuil), uomo stimato
e ammirato, non è mai stato un medico, ma ha
finto di esserlo per 18 lunghissimi anni: è solo
un impostore, costretto a mentire per la paura di deludere
chi gli sta accanto, e che, messo alle strette, inzia
ad uccidere tutte le persone che non ha più il
coraggio di affrontare...
CRITICA
a cura di Federico Sperindei
- L’AVVERSARIO -
LA GIACCA E LA CRAVATTA, LA NEVE E LA FORESTA:
Il giardino ben curato, l’onorevole dimora, la
cordial conversazione, l’etichetta e il buon lavoro.
Le regole della veneranda operar. La compitezza, il
costume, la giacca, la cravatta e il vecchio galateo
di Monsignor Giovanni della Casa. Mentre avvolge gli
inganni stupefacenti di Jean-Marc Fau, L’Avversario diffonde un pulviscolo infinito di convenevoli e salamelecchi.
Costruisce la rappresentazione totale di una vita borghesissima
che si dispiega attorno alle regole irrinunciabili della
buona creanza: una girandola di strette di mano, ossequi,
salotti buoni e formalità pesudo-burocratiche.
Azioni ridotte a meccanici cerimoniali. Dialoghi inutilmente
cortesi che ballonzolano su preoccupazioni futili. “Un’altra
bottiglia di champagne?”, “Si è messo
in testa di comprarsi una Mercedes”, “Vado
a farvi il caffè”, “E’carina,
sua moglie”, “Che ne pensi del pranzo?”,
“Abbiamo già parlato dell’anello
domenica scorsa”. La sovranità delle apparenze
si manifesta solennemente e ricopre il film con i suoi
valori sacrosanti: gli abiti eleganti, gli arredamenti
raffinati, i regali, i gioielli. La giacca e la cravatta
non abbandonano mai Jean-Marc, sono le vere protagoniste
della storia e il simbolo di un culto dell’esteriorità
che alla fine straripa dalle cene di gala ed invade
l’intera esistenza umana. L’apparenza fine
a se stessa delle formule sociali smette di essere solo
la materia per i ricevimenti e il the delle cinque,
diventa fondamento assoluto anche del lavoro e della
famiglia. Non conta ciò che si fa ma solo poterne
parlare, poterlo esibire, poter mostrarsene fieri. Fino
ad ammettere persino che dietro l’esibizione e
la fierezza non ci sia proprio nulla: nessun lavoro,
nessuna laurea. Non importa, perché la forma
è l’unica vera sostanza. Jean-Marc Fou
ha scorto il vuoto che si annida dietro ogni azione
umana, lo ha accettato con tranquillità, ha lucidamente
scelto la strada più breve per raggiungere l’unico
obiettivo fondamentale: l’immagine. Qui è
l’origine dei suoi inganni, qui ci si accorge
come essi non siano davvero tali. Un ammasso di garbo
e lustrini ha preso possesso dell’intero mondo
dove il protagonista vive, una marea di formalità
tutte uguali ha coperto la speranza di accarezzare altri
valori. E’ come la neve che si accumula su tutto
il film. Su una distesa di neve cammina il giovane Jean-Marc
durante i titoli di testa, una distesa di neve assorbe
il suono delle campane nell’inquadratura conclusiva.
Tutto sommerso, confuso dal bianco, nascosto da una
patina candida di riti senza fantasia. Questa neve è
l’emblema di un’esteriorità monotona
che trionfa sempre e che il protagonista ha saputo far
sua meglio di chiunque altro. Lui cosparge di forme
senza contenuto ogni suo rapporto sociale. Dopo una
notte di sesso con l’amante Mariane, sdraiato
sul letto d’amore, Jean-Marc è ancora in
giacca e cravatta. E’ la personificazione dell’universo
in cui vive, conduce agli estremi l’essenza delle
abitudini di tutti coloro che gli stanno intorno. L’amico
fraterno non ha mai sospettato nulla perché in
fondo è uguale a lui: “Pur standole vicino
non si è accorto di niente? – gli chiedono
– Mai una domanda? Mai un dubbio? Non ha visto
niente?”. “Forse non sono stato capace di
ascoltarlo”, ammette. No, non si ascolta più,
ormai si è deciso che non è importante
farlo. Ma, nei silenzi e nella solitudine, quel vuoto
che Jean-Marc Fau ha compreso alla perfezione torna
a inquietare e interrogare. Nascosto nella sua auto,
mentre tutti lo credono al lavoro, l’uomo toglie
la giacca e la sistema su un appendino. Dimentica il
galateo, mangia biscotti senza usare le maniere educate,
si perde nel silenzio e nel senso dell’assenza
totale. In quegli istanti egli fluttua dentro le apparenze
che ha creato, osserva il significato dietro il significante
e vi trova solo il nulla. Non contano più le
belle superfici, conta il vuoto. E nella solitudine
sono inutili anche le formule dell’etichetta e
dello stile: l’enciclopedia della buona creanza
dice che non si deve portare troppo disordine negli
hotel in cui si alloggia eppure Jean-Marc getta nel
caos la camera d’albergo dove si è rifugiato
per simulare un viaggio di lavoro. Nella confusione
di oggetti gettati qua e là, rimane seduto immobile
dentro le sue bugie. L’assenza del contenuto è
pesante ma inevitabile. Niente ha valore assoluto, ogni
gesto umano rimanda a qualcos’altro che non si
sa più nemmeno cos’è. Tutto è
immagine, simbolo, forma assunta a cuore della vita.
La sola possibilità per entrare ancora in contatto
con qualcosa di solido e autentico, forse, è
il ritorno alle origini. Alla natura. Il padre di Jean-Marc
faceva il forestiere. La foresta si oppone alla neve.
Gli alberi fitti formano uno scudo contro i fiocchi
che cadono, impediscono al manto bianco di coprire il
suolo. A metà del film il protagonista celebra
questa possibilità di regresso a uno stato primitivo
come unica via per aggrapparsi a qualcosa che non sia
solo vano linguaggio, qualcosa che trovi in sé
un valore profondo: solo nella foresta Jean-Marc si
toglie la cravatta, liberandosi simbolicamente dalle
convenzioni sociali, e urlando si lascia rotolare giù
per una discesa, fra gli alberi e le piante. Il profumo
intenso della natura contro l’artificiosità
delle formule umane, il verde degli abeti contro il
bianco della neve. Oltre l’argenteria e i tappeti
persiani si scorge sempre la vegetazione che resiste
nel suo vigore. L’Avversario è un collage di porte e finestre aperte che,
dagli interni eleganti, lasciano intravedere il colore
brillante dei sempreverdi. I personaggi, spersi fra
i loro mobili borghesi, guardano fuori e vedono gli
alberi, ma non li toccano quasi mai. Gli aghi dei pini
sono lontani e sfuggenti. Jean-Marc si appoggia ai davanzali,
scosta le tende, si affianca agli stipiti, ma solo in
rari momenti di liberazione esce dalla dimora per sentire
il bosco sul suo corpo. Eppure la foresta lotta, lotta
con la neve, dà l’impressione a volte di
prevalere e a volte di soccombere, sommersa. Un oscillare
continuo di bianco e verde che si combattono. La panoramica
finale pare suggerirci il trionfo della neve, ma la
resistenza della clorofilla è stata eroica e
forse anche la vita di Mariane è salvata dalla
foresta: ci si trova fra gli alberi quando l’uomo
l’aggredisce e ci si trova fra gli alberi quando,
lui sopra lei a terra in una posizione che allude al
rapporto sessuale, decide di risparmiarla. Il sesso
è il volto più forte della natura, di
ciò che è realtà corporale e non
esteriorità. E il sesso sembra rendere il rapporto
con l’amante segreta leggermente più vero
rispetto alle altre relazioni sociali di Fau: in questo
caso i gioielli regalati e le cene nei ristoranti chic,
anziché celebrare il semplice culto della formalità,
trovano almeno nel puro atto sessuale uno scopo e un
significato. Il dramma dietro le apparenze emerge quando
la finzione perde la propria forza, quando qualcuno
comincia a sospettare e cercare la verità oltre
la recita. Christine si domanda se il marito abbia davvero
un lavoro, scopre lentamente la bugia e chiede spiegazioni.
Lui cambia argomento, prova a distoglierla con le solite
frasi cortesi e inconsistenti, ma è tardi. La
donna ormai cerca i valori autentici dietro la bella
esteriorità e a poco vale il tentativo di Jean-Marc
di convincerla che l’impressione ha valore in
se stessa: “Non vi manca nulla, ho sempre fatto
in modo che non vi mancasse nulla”. E invece sua
moglie, ora, vuole che tutti i simboli significhino
qualcosa. Cerca il senso dentro la convenzione e rischia
di precipitare in una presa di coscienza che non è
in grado di accettare, rischia di comprendere che nulla
nella vita umana può avere valore assoluto. Che
anche un lavoro e una laurea reali sarebbero, a loro
volta, solo significanti che tentano di rimandare ad
altri significati, in una catena semiotica che non trova
mai approdo a meno che non si accetti la forma, qualsiasi
forma, come sostanza. Su questa consapevolezza Jean-Marc
Fou aveva fondato la propria esistenza, convinto che
dovunque la catena si fosse arrestata, qualunque immagine
simbolica si fosse scelta, nulla sarebbe cambiato. Lui
sapeva e viveva così, ma ora Christine pretende
il senso che non c’è e che non può
esserci. L’unica soluzione per evitare la sofferenza
insopportabile che ne nascerebbe è l’abbandono
della stessa condizione umana. E’ la morte. In
questo senso gli omicidi di Jean-Marc possono essere
visti come estremo atto d’amore: impedire che
i suoi cari scoprano improvvisamente cos’è
la vita dell’uomo e vengano distrutti da un dolore
straziante. “Questo – afferma nel video-confessione
– è per te, Christine, e per i bambini,
perché vi amo e siete il centro della mia vita”.
Assassinare per liberare, coprire tutto con una morte
silenziosa che quasi assume lo stesso aspetto dei convenevoli
gentili della quotidianità. Anche l’omicidio
diviene una raffinata cortesia borghese, eseguita con
educazione e contegno: Jean-Marc fa impacchettare con
carta da regalo le armi di cui si servirà, Jean-Marc
si aggiusta la cravatta davanti allo specchio dopo aver
giustiziato i genitori. Egli non attira l’odio
del pubblico perché nel suo gesto agghiacciante
si scorge la luce dell’affetto, la consapevolezza
di come i suoi cari fossero persi comunque perché
non avrebbero mai potuto accogliere la verità
che egli era stato in grado di accettare: significante
e significato sono la stessa cosa. Il fatto che il truffatore
non muoia fra le fiamme forse celebra proprio la sua
capacità di sopravvivenza e adattamento alla
condizione terrena, ma gli spettatori perplessi, in
uscita dalla sala, sanno solo chiedersi se Jean-Marc
verrà assolto o condannato. Senza accorgersi
che questa è solo una piccola questione di morale
soggettiva e che il dramma profondo resta spostato un
po’ più in là, nella possibilità
di trovarsi sul letto della propria amante con ancora
addosso la giacca. E la cravatta.
Federico Sperindei
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