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RECENSIONE FILM LE CHIAVI DI CASA

LE CHIAVI DI CASAANNO: Italia 2004

GENERE: Drammatico

REGIA: Gianni Amelio

CAST: Kim Rossi Stuart, Charlotte Rampling, Andrea Rossi, Alla Faerovich, Pierfrancesco Favino.

DURATA: 105 '

TRAMA: Gianni (Kim Rossi Stuart), un uomo giovane, un uomo come tanti, dopo anni di rifiuto, incontra per la prima volta, su un treno che va a Berlino, suo figlio Paolo (Andrea Rossi), quindicenne con gravi problemi, ma generoso, allegro, esuberante. Nasce una storia di inaspettata e fragile felicità: conoscersi e scoprirsi lontani da casa. Il loro soggiorno in Germania e poi un imprevisto viaggio in Norvegia fanno nascere tra i due un rapporto fatto di scontri, di scoperte, di misteri, di allegria...

CRITICA a cura di Olga di Comite: E' un film forte, austero, intimamente drammatico ma non cupo, pieno di sentimenti ma non patetico. A mio parere il migliore di un regista che non amo in modo particolare ma che ho apprezzato, perché quelli che sembravano limiti in altre sue opere, qui si trasformano in pregi. Sembra quasi che la materia ispiratrice abbia trasformato per contatto anche i termini del linguaggio. Quel tanto di datato, un po' vecchiotto, che poteva apparire neorealismo di ritorno, diventa qui, con la scelta di rappresentare l'handicap attraverso un vero disabile, una intuizione sensibile ed efficace. La cupezza di altre opere, come "Porte aperte" o "Lamerica", si stempera in una fatica di vivere, cui non mancano note d'ironia inconsapevole nel personaggio di Paolo, il ragazzino che il padre decide di prendere con sè dopo averlo fino ad allora rimosso e ignorato. Il tema sociale viene messo in risalto attraverso il tema umano e viceversa, cosicché la storia è certo individuale, ma è anche universale condizione di chi abbia avuto in sorte di vivere con una persona non autosufficiente, diversa nel fisico e nella mente, vivente in un buio spesso impenetrabile anche ai più vicini. Tale atteggiamento di pudore e riguardo verso le vicende narrate mi sembra dimostrazione di intelligenza e sensibilità da parte dell'autore. Per tutto ciò, un film difficile, che poteva cadere nel facile e nei buoni sentimenti di facciata, si mantiene invece in un inusuale equilibrio, coniugando rigore e partecipazione. Certo non è solo merito del regista: anche la sceneggiatura, con l'apporto di Petraglia e Rulli, risulta efficace nelle scelte e nei dialoghi secchi ed essenziali. Degli attori non si può che dire bene, salvo qualche rigidezza da professionista di Kim Rossi Stuart nel ruolo del padre di Paolo. Per il resto egli é giustamente spaesato, oppresso da sensi di colpa, sbigottito di fronte a se stesso e spesso in minoranza di fronte a quella creatura "venuta male", che dovrebbe proteggere. Charlotte Rampling è poi la bravissima mater dolorosa, che disvela al giovane e inesperto amico gli "abissi" di sofferenza cui lei ha imparato ad opporre un'amara consapevolezza, che può essere scambiata per serenità, se non fosse che in un soffio confessa: << A volte mi chiedo: perché non muore? >>, parlando della figlia la quale a fatica può emettere suoni inarticolati. E' un fatto che tocca alle donne "il lavoro sporco", mentre i padri non riescono ad accettare senza riserve e vergogna il loro figlio due volte diverso. Decisivo l'apporto di Andrea Rossi, nel ruolo di Paolo, che vorrebbe una sua piccola autonomia nella vita quotidiana (simboleggiata dalle chiavi di casa) e spesso si perde nei labirinti della propria mente. Altre volte è lui che guida quell'estraneo, bello e stranito che è suo padre con un rovesciamento di ruoli abbastanza usuale nella filmografia di Amelio. Dichiara il regista che c'è voluta una gran fatica a dirigerlo e gran parte del budget è stata impiegata nei tempi lunghissimi delle riprese, ma penso che, a giudicare dal risultato, ne sia ben valsa la pena, sia per le emozioni che il film ci dà, sia per il senso di solidale turbamento che suscita in noi, in tempi di così misero respiro nazionale e mondiale. La disarmata tragicità di quella scena, in cui si è voluto mostrare il corpo nudo di un ragazzino handicappato mentre con sforzi sovrumani esegue gli esercizi di rieducazione nell'ospedale di Berlino, non è fine a se stessa ma ci richiama alla crudezza e nobiltà di quello che è più facile non voler vedere. Inutile dunque riassumere la trama perché la storia è tutta nella condizione fisica ed interiore dei due personaggi principali. Giusta infine la scelta della fotografia di Luca Bigazzi, sgranata e un po' incolore, che si raddensa nei punti essenziali o quando deve mostrare le lucide sequenze di corridoi e macchinari dell'efficiente ospedale da cui Paolo porterà via il figlio, avendo capito che di altro ha bisogno. Nel contempo, alla fine del viaggio, quando il padre ha deciso ormai di condurre nella sua nuova famiglia il ragazzo ritrovato e accettato, Amelio non ci nasconde quanto tutto rimanga difficile nella realtà. Niente lieto fine, solo spiragli di speranza; resta la tragedia di questi "figli di un dio minore" per chi la vive e per chi la condivide. Olga di Comite
VOTO:

SPIGOLATURE

Dice Amelio: << Senza il corpo di Andrea, la diversità di Andrea, i sorrisi di Andrea, il buio di Andrea questo film non ci sarebbe >>. Ed ha perfettamente ragione. << Docile e impenetrabile >>, continua Amelio, << è da considerarsi coautore del film, cui ha trasmesso... una specie di saggezza innocente e incosciente >>. Riflettevo su quanto sia ancora più difficile confrontarsi con l'handicap mentale, quando il portatore si fa ostile, quasi violento, difficilissimo da sondare. Contro questo muro spesso si scontra anche la pietas di chi ha superato diffidenza, paura e rigetto. Non nascondiamocelo con facili moralismi a parole. Vivere giorno per giorno queste situazioni è << eroico, doloroso e disperante >>. Salvo che poi un sorriso di quella persona, bambino, giovane, vecchio che sia, quando ritorna dai suoi viaggi nel nulla a voi, può ripagare quasi di tutto. Uno degli sceneggiatori del film, Stefano Rulli, ha presentato per la sezione "Cinema digitale" a Venezia "Un silenzio particolare". Già trent'anni fa egli era stato coautore del bel documentario sui manicomi "Matti da slegare"; qui, attraverso episodi, brani di diario, immagini e silenzi, ritorna al tema del problema psichico. Con discrezione racconta del disagio del figlio Matteo e di un agriturismo, Città del sole, che accoglie chi soffre di malattie mentali. Il film, trasferito da video a pellicola, sarà distribuito da Nanni Moretti.

 

INVITO

Invito alla visione di due film. Il primo è "Rain Man", il viaggio di due fratelli con un Dustin Hoffman, istrione ma non tanto, nel ruolo di un autistico e genio matematico. Il secondo. "Il mare dentro", attualmente nelle sale, dove un uomo (Javier Bardem), rimasto paralizzato da giovane, non chiede amore per vivere ma per morire con dignità. Invito alla lettura di "Nato due volte", di Michele Pontiggia, "Il quinto figlio" di Doris Lessing, "Manicomio Primavera" di Clara Sereni, tre scritture diversissime alle prese con il racconto dell'handicap e dei problemi ad esso legati.

 

PROVOCAZIONI

1. Qual è il disabile che ci turba di meno o i disabili sono tutti uguali?

2. La cura dei disabili, degli anziani non autosufficienti, dei malati terminali, tocca quasi sempre alla madre, alla figlia, alla sorella. Può essere una scelta etica da parte di chi ci si dedica, ma perché questa non viene quasi mai esercitata dai padri, dai figli, dai fratelli?

3. Deformità fisica o buio mentale: cosa è più intollerabile in una società di corpi belli e levigati e di menti avvezze alla lucidità tecnologica?

 

a cura di Olga di Comite

CRITICA a cura di Gianni Merlin: Atteso come maggior candidato al Leone d'oro al recente Festival Di Venezia, l'ultima fatica di Gianni Amelio traccia una linea di continuità nel cinema del regista de "I Ladri di bambini", ma involontariamente delinea anche un ennesimo punto di non ritorno per tutto il cinema italiano, sebbene il film in questione si faccia apprezzare sotto diversi profili. Dichiaratamente semplice nei contenuti, tanto che da mesi si poteva intuire la trama leggendo qua e là, il film che vede per l'appunto il giovane padre Kim Rossi Stuart alle prese con le problematiche tipiche dell'handicap di un figlio per questi motivi dimenticato, supera quasi da subito le accuse di opera ricattatoria nei confronti del pubblico, elemento che in effetti a priori connota la visione della pellicola: l'impegno qui di Amelio è molto forte e sentito, si vede una totale partecipazione di tutta la troupe alla realizzazione del film e spesso si ha l'impressione che alcuni piani siano stati girati alla prima o comunque quasi senza preparazione. Tale spontaneità dell'esito recitativo è corroborata da una sceneggiatura sempre attenta, mai banale, partecipe alle vicende e che ha il gusto, sempre in agguato, di non cadere nella ipocrisia o nel retorico; è chiaro che ad Amelio interessa la crescita umana del personaggio maschile più che la descrizione soggettiva dei traumi dell'handicap, risultato che raggiunge grazie alla figura e alla interpretazione femminile di una presentissima Charlotte Rampling, abile nel esprimere fisicamente i segni di una vita di fatiche alla mercè della propria bimba. In effetti, nella sua semplicità la pellicola crea un'attrazione e un coinvolgimento crescente con lo spettatore nel quale si riflettono i passi e l'acquisizione di consapevolezza di sé come uomo e come padre di Rossi Stuart, attore che volentieri si rivede sullo schermo, qui in una delle sue migliori interpretazioni per partecipazione e resa. Questo è quanto di buono si può dire de Le Chiavi di casa che l'asciuttezza dello stile, la sobrietà del montaggio e della sceneggiatura e la coralità interpretativa all'interno della narrazione sicuramente faranno apprezzare ai più. Il punto però rimane un altro, ovvero ci si può, o si deve, accontentare ancora una volta di una parabola esistenziale, di un cinema del reale, dei buoni e noti valori di una inflazionata tradizione umana italiana, da parte di un regista del tutto dignitoso come Amelio, che di per sé nella sua filmografia si è ostinato, pur con indubbie capacità professionali, comunque a trattare soggetti "vecchi", ancorati ad una idea di cinema che oramai non ha più un futuro? La discussione è aperta, ma Le Chiavi di casa, forse perché film semplice, pone questo quesito, alla luce dei mediocri risultati di tutti i film italiani in concorso, purtroppo agganciati più che mai alla tradizione di un tempo, soprattutto in termini di soggetti analizzati, e incapaci di esprimere fantasia, originalità, emozioni nuove verso lo spettatore, in sostanza di riformulare una nuova personale espressione di cinema. Gianni Merlin
VOTO:

CRITICA a cura di Livio Marciano: Due uomini si incontrano alla stazione: uno sta passando le consegne di un'esperienza difficile all'altro. L'esperienza difficile si chiama Paolo, ragazzo quindicenne, nato da un parto disgraziato che ha segnato indelebilmente il suo corpo, ha ucciso la madre e allontanato il padre. Proprio il padre è uno dei due uomini della stazione. Maturato, cresciuto, segnato dalla vita e da una nuova esperienza di paternità, ha deciso di prendersi finalmente cura del figlio abbandonato tanto tempo prima. Sarà proprio Paolo, attraverso un difficilissimo percorso comune, a infondere la fiducia e il coraggio di affrontare il "problema" insegnando al padre un nuovo modo di affrontare la vita. Le Chiavi di casa è il nuovo, attesissimo film di Gianni Amelio. L'ispirazione della pellicola è venuta dal romanzo "Nati due volte" di Giuseppe Pontiggia. Il testo di Pontiggia è citato espressamente nel film: è il libro che Charlotte Rampling consiglia a Kim Rossi Stuart durante uno dei loro incontri presso la clinica tedesca. Le Chiavi di casa rappresentano la metafora principale del film. Le chiavi accompagnano lo svolgimento dell'azione, sono orgogliosamente brandite da Paolo come strumento di emancipazione e, nel contempo, come momento assoluto di chiusura del ragazzo in sé stesso, una sorta di autodifesa nei confronti dell'esterno. La chiave consente l'accesso ad un luogo intimo, la casa appunto, e il luogo intimo, in questo caso, è costituito da cuore e anima del protagonista. Paolo, come molte persone nella sua situazione, è amante della vita, ha un'energia e un'allegria incredibili, riesce ad affrontare la propria malattia cercando di ritagliarsi una normalità nelle piccole cose quotidiane, comuni ai ragazzi della sua età: il gioco elettronico, la formazione della Lazio e il calcio, la fidanzatina norvegese con la quale ha intrapreso un rapporto epistolare. Il padre parte da una situazione di estremo svantaggio, ha troppe cose da farsi perdonare. All'inizio lo vediamo impacciato eppure assalito da una tenerezza quasi morbosa nei confronti di quel figlio che, per anni, ha finto di dimenticare. Il viaggio a Berlino occupa la prima parte della pellicola ed è tutto giocato su questo cauto avvicinamento tra padre e figlio, con momenti di estrema tenerezza, alternati a momenti di panico e di tensione. Questa è la parte più convincente e più riuscita del film di Amelio. Il regista sa tenersi in disparte, per lasciare spazio alla bravura dei due protagonisti. La telecamera esplora con frequenti primi piani in campo e controcampo che sanno alternare tensioni e tenerezze. I due protagonisti si inseguono, si "annusano", si studiano, cercando disperatamente di trovare un punto di incontro. Il padre continua a non accettare i momenti di chiusura estrema del figlio, i momenti in cui questi elenca gli impegni quotidiani, ostenta le chiavi di casa come simbolo di indipendenza, momenti in cui è maggiormente in difficoltà, in cui il suo mondo interiore si chiude ermeticamente a quello esterno. In questa fase, grande rilevanza ha la figura interpretata da Charlotte Rampling, madre di una ragazza gravemente handicappata, per la quale la donna ha sacrificato ogni energia vitale. L'attrice americana funge da guida spirituale allo smarrito Rossi Stuart. Lei è portatrice del messaggio forte del film: << I portatori di handicap non soffrono molto della loro condizione, i genitori sono destinati a prendere il pesante fardello sulle proprie spalle >>. Il film affronta tematiche molto difficili e, nel complesso, lo fa in maniera non banale. Bravo è il regista, soprattutto nella fase di (ri)costruzione del rapporto padre-figlio, a filmare nel modo più convincente e meno retorico gli sforzi di entrambi. Meno convincente è la seconda parte, quando Paolo è costretto da una dottoressa, dipinta come una sottospecie di kapò dei campi di concentramento nazisti, a subire una serie di sedute fisicamente spossanti che lo riducono, agli occhi del padre, alla stregua di una cavia da esperimenti. Da questo momento ha luogo un viaggio iniziatico, soprattutto per il padre, che riecheggia in maniera indiretta, il precedente viaggio de "Il Ladro di bambini". Il padre decide di portare Paolo in Norvegia, dove abita la fidanzatina alla quale scrive lettere d'amore. La Norvegia rappresenta la tappa finale del viaggio dei due. Il gesto simbolico di Kim Rossi Stuart, quando si libera del bastone di Paolo gettandolo in acqua, equivale a una definitiva presa di coscienza: da questo momento, sembra dire il genitore, sarò io a prendermi cura di te. Non è un rapporto sperequato. Il gesto è bilanciato, nell'ultima scena del film, dal bambino che rimbrotta il genitore, incapace di reagire al momentaneo autismo del figlio se non con il pianto. Paolo apostrofa il padre con il suo consueto accento romanesco con una frase che risuona come monito per l'intera vicenda: << nun se fa’ così >>. Questa frase racchiude una notevole forza pedagogica e un'intrinseca generosità: il bambino, pur conscio delle gravi mancanze del padre, ha perdonato, ma non dimenticato. Ancora una volta sarà Paolo a uscirne vincente. L'argomento è delicato, tuttavia il regista sa trattarlo con estrema abilità e, almeno nella prima parte, il film risulta decisamente sopra la media. Alcuni momenti sono eccessivi, come il personaggio di Charlotte Rampling, non del tutto convincente abbarbicato com'è nel clichè di "Giovanna d'Arco al rogo". La seconda parte invece è molto più convenzionale, a cominciare dal momento della clinica, fino al viaggio in Norvegia, tutto un po' troppo scontato, un po' troppo semplicistico, per una pellicola che fino a quel momento aveva dato altre e più sincere emozioni. Sembra che Amelio spinga sull'acceleratore dei sentimenti per la massa, rendendo il film un Rain Man "all'amatriciana". Una nota positiva è l'interpretazione. Tutti gli attori sono molto bravi: il giovane Andrea Rossi nella parte pressoché di sé stesso e, soprattutto, va sottolineata la prova di Kim Rossi Stuart, che palesa notevole intensità drammatica. Con questo Le Chiavi di casa Gianni Amelio dimostra il suo talento di regista, particolarmente abile nel raccontare storie molto radicate nella realtà, ma conferma anche il suo limite più importante, cioè di non riuscire a comunicare un continuum di emozioni vere, concrete. Lo stile di Amelio concede ampio spazio alle storie e ai loro protagonisti. Detto così potrebbe apparire un grande pregio, invece, dopo aver visto un film del regista calabrese, si prova una sensazione ambivalente: la forma appare sempre convincente, ma nel suo cinema aleggia costantemente il sospetto di qualcosa di artefatto, di convenzionale e di falso, nonostante l'evidente partecipazione emotiva. Livio Marciano
VOTO:

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