ANNO:
                              Canada / Francia 2003 
                       
                         GENERE:
                            Drammatico 
                         REGIA: Denys
                        Arcand 
                         CAST:
                            Remy Girard, Stéphane Rousseau,
                            Marie-Josée Croze, Dorothee Berryman, Louise
                            Portal, Marina Hands, Dominique Michel, Johanne
                            Marie Tremblay, Pierre Curzi, Yves Jacques, Sophie
                            Lorain, Toni Cecchinato. 
                         DURATA:
                            112 ' 
                        
                         TRAMA:
                            Rémy (Rémy Girard),
                            cinquantenne divorziato, è in
                             ospedale. La sua ex moglie, Louise (Dorothée
                             Berryman), chiede al
                            loro figlio Sébastien (Stéphane
                            Rousseau) di
                            tornare a casa da Londra, dove ora vive. Sébastien                          esita:
                            sono anni ormai che lui e suo padre non hanno più molto
                             da dirsi. Finirà per cedere e volerà a
                             Montreal per aiutare sua madre ad assistere il padre.
                             Appena arrivato, mette in moto
                             i suoi agganci e smuove ogni cosa per facilitare
                             la prova che attende Rémy. Soprattutto riunisce
                             intorno al letto del padre l'allegra brigata che
                             ne ha popolato il passato: parenti, amici, ed ex
                             amanti. Cosa sono diventati in quest'era di "invasioni
                             barbariche"? Le vecchie irriverenze, amicizie
                             e truculenze sono ancora intatte? L'umorismo, l'edonismo
                        e il desiderio abitano ancora i loro sogni? 
                        CRITICA a
                          cura di Gianni
                            Merlin:     
                          Non è mai facile parlare
                          del mistero della morte al cinema,
                          pochi ci hanno provato con esiti alterni
                          e ancor meno sono stati coloro che
                          hanno provato a rappresentare serenamente
                          le ore, i giorni precedenti il fatal
                          trapasso; in questo Le invasioni
                            barbariche, il canadase Denys Arcand invece
                          riesce a dar corpo a quest'ultima
                          fase della vita, senza retorica e
                          qualunquismi, ma dando un gioioso,
                          sano e laico esempio su come dovrebbero
                          essere i nostri ultimi istanti. Tutto
                          ciò nasce dall'esperienza
                          personale di Arcand con i propri genitori,
                          entrambi colpiti dal cancro, e viene
                          realizzato al meglio da una manciata
                          di briosi attori e da una sceneggiatura
                          frenetica, molto spesso divertente,
                          quasi mai sopra le righe, tanto da
                          meritarsi un premio all'ultimo
                          festival di Cannes.
                          Il film in effetti è molto
                          parlato, ma quando mai essere parchi
                          di parole quando si deve ripercorrere
                          tutta una vita? Ciò è certamente
                          quello che pensano gli amici di Remy,
                          riuniti dal danaroso figlio al suo
                          capezzale, intenti a rievocare il
                          tempo oramai passato e virtuoso; eh
                          sì, perché riallaccaindosi
                          al superiore "Declino dell'impero
                          americano", traspare evidente
                          nei dialoghi una feroce ironia verso
                          i tempi moderni, privi di intelligenze,
                          di civiltà e pensiero, insomma
                          un mondo alle prese proprio con orde
                          di barbari; non c’è niente
                          da salvare, sanità pubblica
                          allo sbando, sindacati macchiette
                          di se stessi e collusi col
                          degrado, polizia bloccata senza forze
                          contro il crimine, tantomeno le nuove
                          generazioni, vuote e legate al dio
                          denaro: l'era d'oro è alle
                          nostre spalle e forse la cosa migliore
                          da fare è stare insieme tra
                          vecchi amici, non immischiarsi con
                          la folla e ricordare i tempi che furono;
                          centrale a questo proposito è la
                          figura della giovane Nathalie (Marie
                            Josee Croze, migliore
                              attrice a Cannes 2003),
                          la migliore tra gli interpreti, brava
                          non solo
                          a dare
                          le contorte sembianze di dolore tipiche
                          di una tossica, ma anche a rappresentare
                          il vero trade union generazionale
                          della pellicola: Nathalie inizia a
                          disintossicarsi grazie al suo legame
                          col povero Remy che evidentemente
                          infonde in lei quel sapiente amore
                          per la vita, mai avvertito nei suoi
                          pochi anni. Ecco forse, sembra volere
                          suggerire Arcand,
                          dove risiede l’unica
                          ancora di salvezza per noi poveri
                          barbari di quest'epoca, raccogliere
                          l'eredità orale di un
                          passato che altrimenti ci sfuggirebbe. Gianni
                            Merlin 
                        VOTO: 
                        CRITICA a
                            cura di Olga di Comite:
                            Non è un film straordinario, privo di difetti,
                            ma lo è se pensiamo a qualcosa che si colloca
                            fuori dell'ordinario, secondo l'etimo originario
                            della parola. Sul piano del linguaggio potrebbe sembrare
                            fin troppo semplice e un po' vecchiotto: campo e
                            controcampo, ritmo qua e là ripetitivo, fotografia
                            classica, niente guizzi o trovate da anno di grazia
                            2004. Il fatto è che anche la grammatica del
                            film di Denis Arcand, Le
                            invasioni barbariche, è una
                            scelta, "senza rancore" per il nuovo, come
                            tutti i contenuti dell'opera di un regista sessantenne
                            che fatica ad accettare questi tempi "barbarici"
                            ed è legato
                            a un fare cinema poco incline alla tecnologia e molto
                            alle idee e alla bravura degli attori. Il regista
                            franco-canadese ha messo diciassette anni di mezzo
                            tra "Il declino dell'impero americano" (leggi
                            Occidente), suo primo film e il possibile crollo
                            di oggi, dovuto all'urto delle invasioni
                            barbariche                          con
                            il loro seguito di cinismo, strapotere, volgarità.
                            Ma non ci sono rimedi al nuovo che avanza, perché anche
                            il vecchio ha le sue contraddizioni e i suoi errori:
                            niente ricette, ma solo un rifiuto conseguente a
                            una vita improntata a valori diversi non più spendibili
                            nella stessa maniera. Del nuovo che agisce spregiudicatamente
                            in un mondo diverso, del vecchio che se ne va lasciando
                            qualche segno del suo passaggio, sono metafore efficacissime
                            il professore, protagonista del film, e il figlio.
                            Ma oltre che essere simboli, loro come gli altri
                            personaggi, sono esseri umani veri, toccanti, contraddittori,
                            crudeli, amanti della vita o del potere che dà il
                            denaro, dolci o arroccati nel silenzio, superficiali
                            e profondi. Perciò molta parte degli spettatori
                            si riconosce in loro e soprattutto è disposto
                            anche a sorridere e a parlare sul serio di morte.
                            Un universale non facile da rimettere in gioco con
                            la sua verità. Grandezza e miseria, abituati
                            come siamo a morti virtuali o vere che non sembrano
                            tali. Da questo punto di vista. poiché tratta
                            problemi che sono presenti quasi ovunque (sanità,
                            corruzione, eutanasia) il film può commuovere
                            e far pensare tutti. Nello stesso tempo non è un’opera
                            di massa perché è difficile cogliere
                            tutto quello che Arcand ci ha messo
                            dentro come riferimenti culturali e problematiche
                            ad essi connesse. Ci sono
                            Levi e Cioran, Platone e Montaigne,
                            l'arte italiana, il cinema del passato, ma il tutto
                            senza pedanterie,
                            spesso citati attraverso una battuta tra amici durante
                            una cena che è anche un'ultima cena o un godibile
                            flash-back di immagini legate al ricordo delle eccitazioni
                            sessuali del protagonista. Il nostro professore è un
                            cinquantenne da sempre socialista utopico, che è passato
                            attraverso tutti gli ismi della sua generazione,
                            mantenendo intatto un senso vorace e gioioso della
                            vita e un egoismo di superficie temperato dall'aver
                            capito molte cose. Ed è chiaro che egli è l'alter-ego
                            di Arcand. I personaggi giovani
                            importanti sono solo due e a un esame distratto sembrerebbero
                            entrambi
                            negativi. Ma non è così; il regista
                            non cade nel tranello della contrapposizione bene-male
                            e lascia aperti molti spiragli critici sul passato
                            nonchè tratti di speranza sull'oggi,
                            affidati proprio al figlio cinico manager dei nuovi
                            barbari e alla ragazza tossica. Sono loro, in fin
                            dei conti, ad assicurare con mezzi politicamente
                            scorretti, una morte accettabile e confortata dall'affetto
                            al vecchio socialista che di fronte alla realtà di
                            una malattia terminale si è ritrovato solo.
                            Il figlio comprerà tutto e tutti, pur di rendere
                            migliori gli ultimi giorni di quel genitore così diverso
                            e lontano e la ragazza gli fornirà l'eroina
                            per lenire le sue sofferenze fisiche, mettendolo
                            in grado prima di godere ancora dei ricordi e della
                            presenza degli amici e poi di farla finita rapidamente,
                            quando il dolore diventa insopportabile. L'intreccio
                            tra il nuovo e il passato, tra gioventù e
                            maturità, tra civile e barbarico si fa sempre
                            più stretto ed avvincente e alla fine rimangono
                            le cose davvero importanti, quelle che rendono in
                            qualche modo accettabile la fine. In ordine: gli
                            affetti, il sorriso, la gioia dei sensi, la cultura
                            e, perché no, il Pc portatile attraverso
                            cui Remy (un magnifico Rémy
                            Girard) riceve
                            l'ultimo saluto dalla figlia lontana ma che gli somiglia
                            nel modo di accostarsi all'esistenza. Si raccomanda
                            di non perdere un film bello, pieno di punti interrogativi,
                            di pochi esclamativi che contano e di poetici puntini
                            sospensivi... Olga
                            di Comite 
                        VOTO: 
                        CRITICA a
                            cura di Marta Rizzo:
                            INVASI DALLE INVASIONI
                            BARBARICHE - Cosa succede nel complesso,
                            variegato, fragile e potentissimo mondo americano?
                            Meglio ancora: cosa succede ad Hollywood? L'industria
                            del grande cinema si sente così potente e
                            stabile da accettare una pugnalata in pieno petto,
                            oppure denuncia una crisi generale che, nel cinema
                            appunto, trova modo di rappresentarsi in tutta la
                            sua evidenza? A questa domanda, pensiamo che la risposta
                            più ragionevole sia la seconda. E non è una
                            provocazione. Le Invasioni barbariche vince
                            l'Oscar come miglior film straniero perché è un
                            bel film, che tocca sapientemente il cuore di una
                            civiltà in fase di devastazione, senza retorica,
                            senza pathos. Soltanto con un leggero e pesantissimo
                            humor nero. Le Invasioni barbariche racconta,
                            sostanzialmente, la morte di un uomo, di un intellettuale,
                            di un professore
                            universitario di storia contemporanea, nel Canada
                            contemporaneo, e di un figlio, impeccabilmente inserito
                            nel gigantesco mondo dei broker londinesi, dove ha
                            successo, potere, denaro. Il rapporto tra questi
                            due universi paralleli e in conflitto, trova una
                            propria catarsi nella malattia del padre. Un figlio
                            che non ha mai ricevuto stima e affetto dal proprio
                            genitore, un figlio che risente visibilmente dei
                            rancori e dell'odio verso il proprio genitore, osserva
                            il dolore di quello stesso uomo e, per un ancestrale
                            e innato amore, tenta in tutti i modi di rendergli
                            la morte meno violenta. In qualche modo, Sébastien                          riuscirà nell'intento:
                            inizialmente, usando il proprio potere economico,
                            farà in modo
                            che la confusa e disagiata e disagevole sanità pubblica
                            di Montreal dia più dignità alla
                            sofferenza nel luogo della sofferenza (l'ospedale,
                            naturalmente);
                            quindi, osservando la solitudine di un padre che
                            ha abbandonato la famiglia per una passione irrefrenabile
                            e cinica verso le donne, rintraccerài più cari
                            amici di questo strano uomo, facendoli accorrere
                            da qualsiasi posto si trovino, che si tratti dell'Italia
                            o di qualche isolato più in là dall’ospedale.
                            Lentamente, in un crescendo fatto di dialoghi davvero
                            perfetti (perché credibilissimi, intelligenti,
                            ironici, dissacranti) e di recitazioni misurate e
                            appassionate, si ricostruiscono relazioni lontane
                            nel tempo, nelle quali i ricordi, qualche nostalgia
                            e molto senso dell’humor diventano gli elementi
                            vitali di una agonia sempre più vicina. I
                            frequenti ma non invadenti dialoghi tra Remy (il
                            professore) e una suora dell'ospedale, danno al film
                            un tocco metafisico, in cui marxismo, post-strutturalismo,
                            storiografia e il Mistero della Fede si mescolano
                            con armonico cinismo. Gli sguardi intensi e pieni
                            d'affetto di Louise (la ex moglie
                            di Remy),
                            l'evanescenza delicata e svagata di questa donna,
                            il suo essere onnipresente ma non invadente, rendono
                            questo personaggio indispensabile per comprendere
                            il disagio e la solitudine sulla quale il professore
                            ha costruito la propria vita familiare. Gli amici,
                            inizialmente imbarazzati di fronte alla malattia,
                            invadono con garbo e crescente intimità gli
                            ultimi giorni di vita di questo protagonista eccentrico
                            e curioso, reso ancor più invadente dal dolore
                            fisico. Ed il dolore fisico, appunto, è talmente
                            insopportabile che Sébastien, prima rancoroso,
                            poi, via via, sempre più coinvolto e pietoso
                            (nel vero senso della parola: pietas), continua ostinatamente
                            a voler tentare di rendere la morte meno invadente:
                            coinvolge nella malattia paterna, quindi, anche la
                            figlia drogata di un'amica-ex amante del proprio
                            padre. La ragazza mostra un'evidente e credibilissimo
                            scetticismo masochista verso la realtà: sembra
                            voler quasi convincere il professore dell'inutilità della
                            vita; eppure, l'invadente vitalità del
                            professore diviene per lei un'inspiegabile
                            invasione psicologica che lentamente la porta a tentare
                            di disintossicarsi mentre, ogni sera e con sempre
                            maggior intensità, è costretta a somministrare
                            al professore quella stessa droga che lei assume
                            per autodistruzione, mentre a lui serve per rendere
                            un'ineluttabile morte meno dolorosa. E il luogo meno
                            doloroso che si possa immaginare per morire di overdose,
                            piuttosto che continuare
                            a soffrire irrimediabilmente, è la casa sul
                            lago di uno degli amici più cari del professore.
                            Qui, in un rapido ritorno ad una vita fatta di ricordi
                            e di errori e di dubbi intellettuali e generazionali,
                            tutti sono presenti: Sébastien, la bella fidanzata
                            londinese esperta d’arte, la madre, gli amici,
                            e l'aguzzina, la splendida e bravissima artefice
                            della morte dell'ammalato. Sarà lei, dopo
                            una notte di veglia comune, a somministrare l'invadente
                            e letale quantità di droga che recherà a
                            Remy una morte dignitosa e quasi dolce. Tutto finisce,
                            dunque, ognuno torna alla propria vita. L'invasione è finita.
                            Ma la vera invasione, quella di cui parla il professore
                            nei suoi verticali e splendidi dialoghi con la suora
                            dell'ospedale, è un'invasione
                            storica, millenaria: l'invasione che costantemente
                            e ineluttabilmente ha contraddistinto la natura umana,
                            tendente alla prevaricazione, all’affermazione
                            di sé verso altri e all’affermazione
                            di una popolazione verso il resto del mondo. Come
                            una partita di Risiko, la storia umana è come
                            un gioco al massacro. Banale? No, perché tali
                            riflessioni sono il sottotesto del film, un film
                            che non parla mai di questo eppure non lascia tregua
                            ad un continuo ragionamento. Le crociate, le sanguinosissime
                            devastazioni spagnole imposte alle popolazioni indigene
                            americane, la seconda guerra mondiale, fino alle
                            immagini della distruzione torri gemelle: tutto un'invasione.
                            E quell'attacco al cuore del potere, dove nessuno
                            aveva mai osato avvicinarsi, è solamente una
                            delle perpetue invasioni barbariche. Se si vuole,
                            il termine "barbarico" può essere
                            usato nella sua accezione peggiore: barbarie in quanto
                            devastazione senza tregua, senza pietà, né dio.
                            Ma le popolazioni barbariche furono anche quelle
                            che invasero l'impero romano, così come ora, le
                            invasioni barbariche sono quelle del sud
                            o del medio sud orientale del mondo che attaccano
                            e invadono
                            l'impero americano. Tutto questo, mentre un professore
                            di storia contemporanea muore di cancro, o meglio
                            di eroina per un'eutanasia che renda più sopportabile
                            l'invasione che delle cellule impazzite impongono
                            ai fragili corpi umani. Hollywood non poteva non
                            tener conto di tutto questo. Con un leggero stupore,
                            si gioisce per questo ambito premio dato ad un film
                            meritevole, in tutti i sensi. Marta
                            Rizzo 
                        VOTO:                          |