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RECENSIONE FILM MIDNIGHT IN PARIS

MIDNIGHT IN PARISCRITICA a cura di Olga di Comite: Un capriccio d’autore, un gioco a montare e smontare il passato nel presente e viceversa, ma soprattutto un omaggio amoroso alla città di Parigi. Esso inizia dalle immagini mute delle sequenze iniziali per continuare in quelle in notturna e culminare nel ricordo di ciò che la città ha significato (e forse oggi significa meno) per alcuni intellettuali americani. Il tutto condito da alcune battute alla sua inconfondibile maniera e spruzzato dalla malinconia da età non più giovane e da un saggio empirismo che accompagna gli ultimi lavori del regista.

Detto questo, confesso che sono uscita molto delusa dalla sala e, nonostante il gruppetto di amici con cui mi trovavo esaltasse ognuno a suo modo Midnight in Paris come uno del film migliori di Allen, non ho cambiato idea. A mio parere infatti il racconto risulta noioso in alcune parti, ripetitivo nelle modalità, prolisso e scarsamente interessante nel contenuto. Ho avuto la sensazione di tanto rumore per nulla o perlomeno poco. E spiego perché. Pur riconoscendo efficace lo spunto fantastico, esso mi è sembrato riproporre, col tuffo all’indietro nel tempo e i meccanismi ormai usuali nell’autore, qualcosa di già visto e scontato.

Al centro il solito intellettuale californiano, con il solito contorno (genitori della fidanzata e fidanzata medesima) di membri dell’altrettanto ovvia middle-class americana rozza, conservatrice e diffidente, dipinta fino alla macchietta in tanti altri autori made in Usa. Gil, sceneggiatore aspirante romanziere, interpretato da un Owen Wilson, che sembra un bambino allo zoo o un sedicenne inesperto a seconda che si confronti con la cultura del passato francese o con la fidanzata chiaramente insopportabile e inadatta a lui, ha un solo problema. Non ha ben compreso cosa vuole dalla vita. Ed ecco che per farglielo capire viene catapultato all’indietro negli anni Venti, nel bel mezzo di quel grumo di intelligenza, parigina e non, che diede vita e alimento alla cultura di allora.

Inizia così una sfilata tra il ridicolo e l’ingenuo in cui io non ho tanto colto l’ironia di Woody, quanto una maldestra lezioncina (con punte divertenti ma non bastano) su questi artisti realmente esistiti e operanti in vari campi. Di costoro, il protagonista del film, troppo giovane a mio parere per provare un richiamo così profondo del passato, è innamorato, tanto da rimpiangere di non essere vissuto allora. Tramite uno di questi incontri che avvengono simbolicamente dopo la mezzanotte, conosce una delle amanti di Picasso, ma è proprio la bella e sinuosa signorina a svelargli l’arcano segreto: anche lei vagheggia un passato che non c’è più, perché non riesce a dare senso al suo presente.

Da questo momento cade il velo che ottunde il giovanotto, scatta il congedo per l‘orribile fidanzata e l’occasione di amare un’altra subito incontrata per le strade di Parigi, pronta lì per lui e, neanche a dirlo, disponibile. Tutta quella sfilata di figurine da presepio storico, con pettinature stereotipate, in genere con dei vestiti, luci e case da straricchi, ognuno presentato con modalità spesso banalizzanti, mi è sembrata così esagerata e un po’ anche di cattivo gusto per un uomo di cultura come Allen e tale da non giustificare il prevedibile scioglimento finale.

E d’altra parte sempre questa fantastica rassegna del passato potrebbe risultare incomprensibile e noiosissima per chi non fosse addentro a Surrealismo, Dadaismo, letture critiche alla Gertrude Stein, ecc. Insomma ho rimpianto Basta che funzioni, penultima creatura del regista che diceva pressappoco le stesse cose con mirabile incisività, umorismo, tempi e ritmo perfetti, nonché quel tocco di amarezza tipica dell’uomo in età, che non esclude amore per la vita. Dovrebbe esser chiaro che la mia delusione è stata cocente perché proporzionale alla cotta che ho per l’autore dagli inizi della sua carriera. Olga di Comite
VOTO:

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