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RECENSIONE FILM TUTTA LA VITA DAVANTI

TUTTA LA VITA DAVANTICRITICA a cura di Olga di Comite: La riflessione di Paolo Virzì su dove stiamo andando e di quanti “mostri” moderni si arricchisca la tradizione della commedia all’italiana, continua e diventa un po’ più grottesca ed amara rispetto agli inizi (La bella vita, Ferie d’agosto), ma anche rispetto al più recente Caterina va in città.
Già il titolo, alludendo con sarcasmo a un luogo comune una volta ingenuo e fiducioso, indica come sono cambiate le cose, siano esse i giovani, la politica o il sindacato.

Fatti salvi i fondamentali (la famiglia, i sentimenti, l’amore, ecc.), i ritmi attuali sembrano fatti per stravolgere gran parte dell’esistenza e spesso sfiorano la follia. E’ questo camminare sul bordo della maggior parte dei personaggi che produce il tono surreale del racconto, soprattutto nella seconda parte del film. Ed è proprio in essa che il desiderio di analisi a tutto campo dà luogo a una massa pletorica di risvolti, eccessivi alcuni, inutili altri, troppo scontati o melò altri ancora.
Questo volerci fare entrare tutto, danneggia l’equilibrio della narrazione, peraltro intelligente e ricca di citazioni, vedi scena di film nel film o di ricordi velati da un tantino di nostalgia, vedi discorso su una realtà operaia che solo per essere tale era percepita come fatta di eroi “tutti giovani e belli”.

Sui protagonisti bisogna un po’ distinguere, perché alcuni sono veramente una scoperta: Isabella Ragonese (Marta), forte e sensibile, aperta all’accoglienza dell’altro, con due occhioni profondi; Micaela Ramazzotti (Sonia), svampita dal letto facile ma con una sua filosofia che non viene dagli studi, come quella di Marta, ma dalla vita.
Ci sono poi le “scoperte” più mature e qui bisogna citare la Ferilli, che dà vita a un personaggio tra il sinistro e l’indifeso, stretta nella morsa di una solitudine disperata per il suo ruolo di donna in carriera e con un versante romanesco e kitsch ineliminabile. E poi ci sono le riconferme: Elio Germano ripropone doti di attore intenso nel passaggio dal successo all’insuccesso fino alla follia; Valerio Mastandrea calibra con efficacia il personaggio di un sindacalista tra il positivo e l’ambiguo. Il ritratto più debole e ovvio risulta invece a mio parere quello tratteggiato da Massimo Ghini nelle vesti del capo del call-center.

Perché è questa fetta di precariato che il film racconta, a partire dalla brillante laurea in filosofia di Marta, per la quale ci dovrebbe essere tutta la vita davanti, che però si presenta come un sentiero lastricato di difficoltà e chiusure. Né si pensi che la descrizione di quel tipo di lavoro da parte del regista sia inventata o fuori misura perché pare che le caratteristiche di tale mondo siano proprio quelle descritte. Ma la giovane Marta, attraverso il cui sguardo viene raccontata la realtà che la circonda, ha una sua forza interiore che la spinge a farsi usare ma non troppo, a non giudicare soltanto ma a voler capire, a vivere comunque una sua dimensione personale di studio e ricerca che le permette di resistere alla devastazione della competitività, della pubblicità senza anima, ai rituali privi di dignità di certo precariato, allo stravolgimento di ogni solidarietà umana.

Direi che gli aspetti più pregevoli del film di Virzì mi sono sembrate proprio lei e la giovane Sonia, che pure nuda e tatuata non è mai volgare e coglie con una certa acutezza di fondo la differenza tra il sindacalismo d’antan e quello odierno (leggi battuta sul sindacalista Giorgio: “sei quello che dà i depliants pubblicitari, però de politica”). E’ proprio lei, la più smandrappata e coatta a cogliere la debolezza di fondo che non permette al sindacato di denunciare con efficacia la condizione lavorativa di quel luogo parainfernale che è un call-center. Olga di Comite
VOTO:

 

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