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RECENSIONE FILM VIAGGIO A KANDAHAR SAFAR E GANDEHAR

VIAGGIO A KANDAHARCRITICA a cura di Nicole Braida: Nafas, dopo anni lontano dal suo paese vi fa ritorno, alla ricerca della sorella, rimasta in Afghanistan, che nella sua ultima lettera l’aveva avvisata del suo prossimo suicidio, il giorno dell’imminente eclisse.

Inizia il viaggio verso Kandahar attraverso il paesaggio desertico, attraverso i colori un po’ sbiaditi dal sole dei burqa, attraverso l’Afghanistan controllato dai Taliban, dove le donne hanno perso i loro diritti. Nessuna donna puo’ viaggiare da sola, né con un uomo a meno che non sia suo marito. Impercettibile violenza psicologica che divide queste donne dal mondo reale, attraverso il filtro della retina dei loro burqa. Violenza sui bambini, privati della loro libertà: nella scuola islamica i piccoli studiosi delle sacre scritture rispondono al Mullah che chiede loro “Che cos’è la spada? Che cos’è un kalashnikov?”… “Elimina i malvagi dalla società, punisce i miscredenti dando loro la morte”, questa è la risposta, da ripetere, sempre la stessa , recitata come il Corano.

Le donne, “le teste nere”, non hanno pace nel loro paese, fuggono verso un futuro migliore, in molti scappano abbandonando la loro patria verso l’Iran. Ciò che rimane, per chi rimane, è la speranza. Questa è per le vittime mutilate dalle mine un paio di gambe nuove, una protesi che arriva magnificamente e provvidenzialmente agganciata ad un paracadute dal cielo, è un tozzo di pane per chi è affamato, è il giorno in cui potrà essere guardata, per ogni donna.
In Afghanistan ogni cinque minuti qualcuno muore, che sia per la guerra, per la carestia o la siccità, la vera realtà è che nemmeno Nafas sa come ridonare alla sorella la voglia di vivere. Scappare forse non serve.

Anche in Iran la situazione non è di certo così rosea, per la riuscita del film, che qui vi è girato, il regista Mohsen Makhmalbaf ha dovuto scontrarsi con questioni burocratiche, e ancor di più con preconcetti culturali, per convincere la popolazione di afghani che risiedono sul confine con la loro vera patria, semplicemente a lasciarsi riprendere dalle telecamere. E la storia è ispirata dall’attrice stessa che anni prima aveva chiesto al regista aiuto per entrare in Afghanistan dove voleva salvare una sua amica, rassegnata e disperata a tal punto che stava meditando il suicidio.

Niloufar Pazira, questo il vero nome della protagonista, la quale lavora come giornalista in Canada non solo nella finzione ma anche nella realtà quotidiana, racconta come indossare il burqa per questo film le abbia provocato un falso senso di sicurezza che progressivamente puo’ diventare psicologica dipendenza, una sorta di maschera che sembra proteggere, ma in realtà allontana, rende estranee, vittime di una “violenza velata”. Nicole Braida
VOTO:

 

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